BILAL: UNA VITA DA CLANDESTINO

BILAL: UNA VITA DA CLANDESTINO

Uno “spettacolo” intenso, spietato, mai retorico, quello realizzato da Fabrizio Gatti e Gualtiero Bertelli, in scena ieri sera al Pavone alle 21:00. Il lungo reportage del giornalista e scrittore italiano – poi divenuto il pluripremiato libro “Bilal: Il mio viaggio da infiltrato nel mercato dei nuovi schiavi”- realizza un’inchiesta dettagliata sulle condizioni di vita, viaggio, lavoro dei clandestini che attraversano il Sahara su camion-trasporto merci per poi ammassarsi in navi-bestiame verso Lampedusa, meta agognata ma ben presto causa di disillusione (per quanti sopravvivono naturalmente: alla fame, ai maltrattamenti caporaleschi, alle condizioni igieniche devastanti, alla paura). Poi ci saranno i centri di permanenza temporanea, altri maltrattamenti impuniti, altre privazioni, altri affronti alla dignità personale…Tutto questo nell’ottica generalizzata che il clandestino non è un uomo, meglio perciò trattarlo come una bestia, come una merce di infimo valore, da sfruttare a piacimento, da bastonare, da offendere, senza ucciderlo, è vero, ma solo perché le sue braccia servono al nostro capitalismo maturo e in crisi.
L’incontro fra l’inchiesta, le immagini, le foto e le musiche di Gualtiero Bertelli - che fondono storia e canzone - hanno dato vita ad un evento che si situa fra il teatro sociale e la ricerca antropologica, attento ai dettagli concreti quanto alle sensazioni di chi vive sulla propria pelle l’ingiustizia di un crimine contro l’umanità mai riconosciuto in quanto tale (anche l’Unione Europea non vuole proprio ammetterlo, forse perché molte agenzie europee sfruttano in modo molto redditizio la nuova tratta degli schiavi.)
Un nome inventato, Bilal Ibrahim el Habib, nato nel villaggio immaginario di Assalah, nel Kurdistan iracheno, pantaloni di tela neri, boxer, maglietta di cotone, una felpa blu, un pile pesante e un giubbotto di salvataggio con una scritta in arabo, tre scatolette di sardine 'Product of Morocco', tre panini ormai poltiglia, una bottiglia d'acqua e un paio di vecchie ciabatte di plastica: quanto basta per indossare i panni di un clandestino e vivere in prima persona le indicibili vessazioni a cui egli è soggetto a partire dal centro di permanenza temporanea di Lampedusa. Ma questa è solo l’ultima tappa del viaggio della speranza, che inizia settimane o mesi prima. “Il 12 per cento delle persone che partono dalle coste della Libia e dalla Tunisia non arriva in Europa. Il 12 per cento” spiega l’autore “significa che tra 182 passeggeri su questo camion, 22 moriranno. E se di questo si salveranno tutti, del prossimo ne moriranno forse 44. Oppure 66 di quello che verrà dopo.” (F. Gatti)

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Collaboratore
Festival Internazionale del Giornalismo 2010