Gli avvocati del diavolo.

Gli avvocati del diavolo.

Durante la terza mattinata del Festival Internazionale del giornalismo, nella sala Raffaello dell'Hotel Brufani, si è discusso del conflitto fra avvocati superpagati e giornalismo investigativo. Se l'Italia è sempre quella messa peggio, stavolta, con mio sommo stupore, pare che lo Stato di diritto per eccellenza, l'Inghilterra, ci batta. Nel Regno Unito, infatti, si è sviluppato un fenomeno di non poco conto: il turismo giudiziario. Facendosi beffa di tutte quelle belle storie sulla giurisdizione competente, sulla territorialità del diritto, il Paese della Magna Charta attira una marea di cause, circa il diritto alla libera manifestazione del pensiero, nei propri tribunali. Un vero e proprio “turismo della diffamazione”, grazie a una legge piuttosto restrittiva nei confronti di un sacrosanto diritto quale quello al libero pensiero. La facilità con cui gli avvocati citano in giudizio giornalisti e testate è disarmante. E, soprattutto, si riflette economicamente sui bilanci dei giornali, i quali non sempre possono permettersi cause contro grandi aziende (e grandi avvocati) specie se portate all'estero, in cui diventa anche più semplice perdere. Le scuse per eludere le regole di competenza giurisdizionale hanno dell'assurdo. L'Espresso, per citarne una, ha dovuto sostenere una causa a Londra per nove copie vendute nella capitale inglese. E' evidente, insomma, l'uso di cavilli e stratagemmi da parte degli “Azzeccagarbugli” di manzoniana memoria degli anni zero. Tanto è sentito il problema che John Kampfner ha fondato un'associazione pro libertà di espressione, l'Index on Censorship. Una miriade di azioni legali coperte da una presunta tutela del diritto alla privacy che non fa altro che scoraggiare i giornalisti, in modo tale che non colpiscano i “poteri forti”. Purtroppo, il denaro è ancora potere e il suo abuso è cosa quasi connaturale alla sua essenza. Senza parlare delle pressioni delle lobbies pubblicistiche, strumenti di controllo anche più subdoli, sui giornali. D'altronde, è ovvio che la pubblicità dell'Anas su Repubblica non serva a far sì che qualcuno compri una strada. Le pubblicità diventano così un metodo attraverso il quale controllare l'operato dei giornalisti investigativi, dare soldi in cambio del silenzio. In pratica, un contratto per regolare i rapporti fra gli intoccabili e le notizie. Tutto ciò, che volendo riassumere in una parola, si definisce “intimidazione”, comporta delle naturali conseguenze. A parte, quindi, tutti i problemi strettamente legali, si innescano, così, dei meccanismi psicologici di autocensura da parte dei giornalisti stessi. Come non comprendere la paura che nasce da atteggiamenti, mi si passi il termine, “mafiosi”. Il problema ancora più grave, infatti, oltre alle cause che in un tribunale (che poi sia quello inglese è un altro discorso) perlomeno arrivano, sono quelle che, invece, rimangono occulte. La vera tragedia per l'informazione libera nasce quando è lo stesso giornalista a non scrivere per paura. E, allora, avremo sempre più giornali zeppi di articoli politicamente corretti e poco utili alla società. Alla base, ovviamente, vi è una politica legislativa avvallatrice del fenomeno, perché, si sa, le lobbies sono gestite spesso e volentieri da persone che non solo hanno potere, ma che sono il potere stesso, quello costituzionalmente riconosciuto.

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