Notizie dal Festival: la buona, la brutta e la cattiva
Il Festival Internazionale del Giornalismo ha chiuso i suoi battenti domenica sera con il quartetto Scalfari, Tornatore, Serra, Veltroni. Molti i convegni che hanno riempito l'agenda della kermesse perugina. I cinque giorni sono trascorsi con tante idee e poche soluzioni. Non sono mancati i nomi 'illustri': da Al Gore a Travaglio fino a Saviano. Il successo pero è di facciata. Il giornalismo italiano conferma il suo stato di crisi per tre (ovvie) ragioni.
La prima riguarda l'enorme divario esistente tra il nostro modello e quello anglosassone. La presenza in loco di giornalisti stranieri ha reso il confronto impari. Dai dibattiti con oggetto i "new media" è emersa la triste realtà di un Paese che non investe nell'informazione digitale. La notizia “buona” è che arrivano in soccorso gli americani (e non solo). Tendenzialmente ti offrono nuove e valide idee lasciandoti sognare che un giorno sbarcheranno anche in Italia. Chissà se cominceranno dalla Sicilia? È stato molto interessante ascoltare i vantaggi/svantaggi dei social network in campo giornalistico, le evoluzioni nel linguaggio, il ruolo dei blogger, le possibili evoluzioni nelle inchieste. Sono state fornite delle informazioni utili per chi crede che il giornalismo italiano non sia ancora morto: ha semplicemente bisogno di una forte scossa innovativa in tutte le sue sfumature, compresa la presenza dei partigiani dell'informazione (altrimenti “non c'è storia”!). Tale concetto introduce la seconda ragione che conferma la crisi.
Una volta spente le luci del Festival, la "brutta" notizia è che il giornalismo italiano è ritornato al buio. Come spesso accade, eventi del genere servono più come vetrina che come espedienti per risolvere i problemi. Le politiche legislative attuate dal Governo e quelle in corso d'opera confermano un ritardo sociale nei confronti di internet. I mancati investimenti sulla banda larga, le leggi restrittive per i blog (e più in generale per la rete) sono alcuni degli esempi che vanno citati per spiegare quanto sia ancora viva la paura che un'opinione pubblica informata possa essere un problema e non una risorsa contro il mal governo. Quello che in molti paesi sta diventando un diritto, in Italia è ancora un concetto embrionale. Se il futuro dell'informazione passa attraverso politiche di alfabetizzazione sui media, da noi la notte è sempre più profonda.
Il vero vincitore del Festival è il giornalismo di facciata: quello di chi dorme negli hotel a cinque stelle, che sperpera Baci perugina (mentre nei bar costano 50 centesimi l'uno), quello dei vassoi di cibo che riempiono le sale pranzo, delle ragazze immagine, di chi ti regala le penne, i block notes, le magliette. Vince il business nel creare un evento simile. La “cattiva” notizia è che rispetto a questi bilanci il giornalismo italiano è in una crisi economica che investe quasi tutto il settore. Durante il Festival è stato detto e ridetto, battuto e ribattuto a chiare lettere: “C'è crisi”. Esiste un modello di business che funziona (quello di facciata) e un modello di business in rosso (quello strutturale).
C'è ancora spazio per l'ultima curiosità emersa durante i convegni: quando si parlava del nostro Paese la platea tendeva a ridere. Attenzione, la platea italiana fatta di giovani aspiranti giornalisti. C''è in giro una nuvola pirandelliana che speriamo non contenga una pioggia di lacrime. Ammetto, però, di essere stato tra i primi a rallegrarmi di fronte alle parole: "Qui tutto va male". È una questione di abitudine, fa parte del dna di una generazione che si è fatta le ossa a furia di sentirsi raccontare l'eventuale realtà e prosegue il proprio cammino nella buona, brutta o cattiva sorte.