Carla Gravina: “La mia esistenza vissuta pienamente: tra schermo, palcoscenico e attivismo politico”
a cura di Alessandro Ticozzi
La celebre attrice friulana rievoca appassionatamente i passaggi topici di una carriera equamente ripartita in cinema, teatro e televisione: fino alla significativa esperienza come deputato PCI.
Dopo essersi affermata nel cinema per freschezza e istintività sul finire degli anni Cinquanta (Amore e chiacchiere, 1958; I soliti ignoti, 1958; Esterina, 1959), cosa La spinse a dedicarsi nel decennio successivo soprattutto al teatro?
Non è stata una decisione personale: incontrando Gian Maria Volonté, la mia vita è stata praticamente travolta dal fatto che avevo un rapporto con un uomo sposato; cosa che in quell’epoca era una tragedia greca per cui una ragazzina come me che aveva un contratto con De Laurentiis per sette anni, e una carriera stupefacente sul grande schermo stipendiata meravigliosamente. Ero insomma all’apice quando il cinema mi ha chiuso totalmente ogni accesso: credo di aver pianto per due anni la notte di nascosto, perché soffrivo tantissimo nel pensare che fosse un ingiustizia. Tuttavia avevano anche ragione, perché io interpretavo ruoli da ragazzina pulita: come facevano a farmeli ancora ricoprire, avendo ormai io una figlia fuori dal matrimonio? Siamo negli anni Sessanta: in quell’epoca chi aveva un problema del genere – come poi anche Mina e la Sandrelli – subiva quattro anni di blocco televisivo, il che equivale a chiudere una carriera. L’unica soluzione – e per fortuna che l’ho avuta, e che mi hanno accettata – era quella di fare il teatro: ciò ha permesso che questo non avvenisse.
Una volta tornata allo schermo in ruoli più maturi (Cuore di mamma, 1969; Alfredo Alfredo, 1972; La maternale, 1978; I giorni del commissario Ambrosio, 1988), con quale spirito Lei ha affrontato compiti impegnativi anche in televisione (Madame Bovary, 1978) e in teatro (da Elettra di Sofocle, 1970, a Girotondo di Schnitzler, 1982, e Nostradea di Bontempelli, 1992)?
Erano ruoli più maturi e impegnati perché nel frattempo ero anche cresciuta: non ero più l’adolescente di Esterina, bensì una giovane donna. Cuore di mamma è stato il film che mi ha riaperto le porte cinematografiche dopo otto anni, pur non essendo andato bene come si sperava. Viceversa Alfredo Alfredo fu un esperienza stupenda: ho amato molto Germi – qui alla sua ultima regia – , così come l’immenso protagonista Dustin Hoffman. Maternale appartiene poi al periodo in cui mi chiamavano tutti i giovani registi un po’ alternativi: io aderivo perché mi faceva piacere contribuire a titoli così coraggiosi, legati alle lotte femministe; anche se magari nemmeno uscivano, come in questo caso. I giorni del commissario Ambrosio non lo reputo invece il massimo della mia carriera: l’ho interpretato perché – visto che facevo soprattutto teatro – dovevo accettare qualcosa anche in cinema. Però non è stato uno dei ruoli più stimolanti per me: era una cosa di passaggio, ce ne sono state altre più importanti. Tra queste sicuramente lo sceneggiato Madame Bovary, per il quale mi ha voluta Daniele D’Anza: il regista televisivo che più m’ha aiutata nel periodo in cui anche il piccolo schermo mi aveva espurgato per le ragioni da me già sopra menzionate, pur se – essendo stato realizzato nel ’78 – ormai era acqua passata. Sul palcoscenico ho alternato testi classici e contemporanei: dopo il periodo in cui ho dovuto fare teatro per continuare a lavorare, me n’ero totalmente appassionata. Il teatro o lo ami o farlo è una pazzia, perché è uno dei mestieri più difficili e faticosi: mi sono invero successivamente ritirata completamente distrutta da tournée massacranti che mi vedevano cambiare città tutti i giorni per due mesi, durante i quali vivevo con dei compagni che conoscevo poco o niente più che con un marito o una figlia; un esistenza in comune, per la quale devi possedere una grande abilità. Infatti una volta Lea Massari – dopo aver affiancato sulle scene Gastone Moschin per un anno – m’ha telefonato dicendomi: “Ma tu sei matta! Come cavolo puoi fare teatro?”. Io le ho appunto risposto: “All’inizio l’ho fatto per necessità, e poi per passione”.
Come mai Lei ha deciso di chiudere la Sua carriera interpretando il film Il lungo silenzio (1993) di Margarethe von Trotta?
Per me è stato importante farlo, giacché viene da una mia idea; era il periodo che avevano ucciso Falcone e Borsellino, e un compagno di Parlamento mi ha chiesto: “Ma perché tu non reciti qualcosa in merito?”. Io gli ho risposto: “Non posso in quanto non sono un uomo”. Poi ho pensato: “Perché invece non far vedere come vivono un simile inferno le donne di questi uomini meravigliosi: cioè le madri, le mogli, le compagne e i loro eventuali figli?”. Parlai di tale spunto con Laudadio e successivamente con la von Trotta, che era allora la sua compagna: lui l’ha sceneggiato ed è stato realizzato. La von Trotta è stata con me sempre amorosa e gentilissima finché non siamo arrivati sul set: dopodiché non si è dimostrata molto generosa. Grazie alle loro trattative sotterranee, lei e Laudadio hanno fatto di tutto per non farmi avere il premio di Montréal che – insieme a molti altri – m’hanno poi assegnato per quel film: a me interessano più i rapporti umani dei riconoscimenti, e in quella circostanza ho subìto una grande delusione.
Dal 1979 al 1983 Lei è stata deputato del PCI: come ha vissuto quest’incarico così prestigioso?
Sapendo che ero una di sinistra fin dai tempi di Gian Maria, il Partito mi aveva chiesto se volevo propormi; e io ho risposto: “Per carità! Io di politica ne capisco, ma faccio un altro mestiere”. Loro invece: “Ma dài, Carla! Tanto lo fai solo per avere il tuo nome: non verrai mai eletta”. Il Partito Comunista infatti aveva già tutti i suoi affiliati: e invece ancora mi domando chi mi ha votato così tanto; per di più a Milano, dove io non avevo neanche la mamma e le sorelle che mi potevano sostenere. Sono arrivata seconda tra i non eletti: per cui già pensavo di essermi salvata, in quanto così non sarei entrata in Parlamento. Poi è morto Longo, e – con grande emozione – mi son trovata a sostituirlo: è stata una bellissima esperienza perché ho incontrato persone come Ingrao e tutti questi grandi che io già amavo, e viceversa. Avrò pure fatto poco, però sono stata una brava peones: ho lasciato anche un anno di lavoro per stare seriamente in Parlamento. È stata una bella avventura: dura, ma bella.
A quasi ottant’anni che bilancio trae della Sua vita privata e professionale?
Ben venga che sia arrivata così vitale a quest’età: ci son tanti che muoiono prima! Il bilancio della mia esistenza personale è soddisfacente: me la sono goduta tutta, pur avendo fatto degli sbagli. Magari quello di mollare qualche compagno quando invece non dovevo farlo: come Gian Maria, che – nonostante non stessimo più insieme – è rimasto fino in fondo l’uomo della mia vita. Con alti e bassi, ho vissuto in pieno anche l’attività artistica: l’ho piantata quando avevo deciso di farlo.
Ha qualche progetto in serbo per il futuro?
Non certo professionalmente parlando, perché io ho lasciato questo mestiere ormai quasi trent’anni fa. Invece la cosa meravigliosa che intenderei continuare a fare è viaggiare: è stato il primo godimento che ho potuto avere quando ho deciso di abbandonare il teatro, perché – pur lasciandoti alcuni mesi liberi – non sei mai sicuro se puoi farlo o meno; dovendo inoltre progettare la stagione successiva, non hai mai una piena libertà. Il primo viaggio che ho fatto – in compagnia di un amico attore – è stato in Madagascar per più di un mese, in quanto volevo vedere la natura: poi son stata in India e Sri Lanka, girando così il mondo sempre alla ventura. Ormai non ho più l’energia per sostenere viaggi così tosti: l’ultimo che son sicura di poter affrontare è partire a bordo di un postale, facendo tutte le coste della Norvegia fino al Polo Nord. Il lavoro l’ho mollato da tempo, e non ho proprio più pensato di tornarci: ho già dato.