Carlotta Bolognini: “La mia vita nel cinema, nel segno di papà Manolo e zio Mauro”
A cura di Alessandro Ticozzi
La produttrice racconta la genesi del documentario Figli del set, nella speranza di riuscire a realizzare pure il docufilm Compagni d’arte: sempre guidata dal rigore e dall’onestà apprese da grandi uomini di cinema quali furono il padre e lo zio, di cui serba un sentito ricordo.
Com’è nata in te tre anni fa l’idea di produrre e sceneggiare il documentario Figli del set e come hai impostato successivamente il lavoro con il regista Alfredo Lo Piero?
L’idea mi è venuta in un secondo alzandomi una mattina, e provando sempre una grande nostalgia per il bel cinema di quelle persone adorabili che ho conosciuto: gente di grande cultura e serietà. Quindi ho buttato giù su un foglio due note che man mano ho sviluppato; dopodiché i primi che ho contattato sono stati Renzo e Alessandro Rossellini, e loro mi hanno risposto entusiasti: “Siamo con te: ti diamo tutto il materiale che vuoi”. Questo mi ha incentivato a impegnarmi ancora di più, ritenendo di fare una cosa carina: così ho chiamato man mano amici come Fabio e Fabrizio Frizzi, Danny Quinn e le figlie di Giuliano Gemma. Il lavoro è durato due anni: per fortuna ho avuto subito l’appoggio di Alfredo Lo Piero, un entusiasta ragazzo appassionato di cinema dei vecchi tempi con cui ci siamo trovati immediatamente d’accordo senza firmare niente ma solo sulla parola – come usava fare mio padre, che la riteneva già di per sé un contratto. Penso che insieme abbiamo fatto un buon lavoro, visti i tanti premi ottenuti: è stato infatti evento speciale al Giffoni e a Taormina, classificandosi inoltre ventesimo su centoventi documentari al David di Donatello e uscendo alfine nelle sale a metà ottobre scorso.
In quanto figlia e nipote d’arte, come hai vissuto tu nello specifico l’aria dei set cinematografici di Papà Manolo e Zio Mauro, nonché il tuo successivo apprendistato nel mondo della celluloide?
Mio padre ha fatto il viaggio di nozze con mia madre al Teatro 5 di Cinecittà mentre stava producendo Il generale Della Rovere di Rossellini con De Sica: nascendo io proprio su quelle ceste, per me era normale tutto quello spettacolo che vedevo. Quando ero più grande, uscendo da scuola andavo direttamente sul set: la mia passione era mangiare i cestini con attori, macchinisti ed elettricisti. Lo vivevo come un divertimento; invero già da piccolina rompevo un po’ le scatole a mio padre chiedendogli di farmi lavorare, e lui mi rispondeva: “Quando sarai grande: adesso sei ancora troppo piccola”. Invece il primissimo film lo feci a cinque anni perché Papà mi disse esasperato: “Va bene, segui la segretaria di edizione: vedi se ci sono sbagli, ricordati le scene e come sono vestiti gli attori”. Si trattava di Django: saltavo da un reparto all’altro dalla curiosità, andando a vedere i truccatori e i parrucchieri in sartoria. Mi divertivo tanto coi vestiti: la sarta – che era un po’ la mia tata – m’insegnava certi trucchi per invecchiare gli abiti e i tessuti. Così incominciai con il costume, però a me piaceva di più l’organizzazione: pertanto mio fratello Andrea prima lavorò in produzione con Papà, scoprendo poi di preferire la regia; così fui io a sostituirlo al suo fianco.
Tenendo comunque sia conto delle mansioni differenti che svolgevano – Manolo produttore, Mauro regista – , quali differenze e analogie potevano esserci secondo te tra loro due come persone e come uomini di cinema?
Il loro è stato sempre un rapporto meraviglioso: non solo erano fratelli, ma anche migliori amici l’uno dell’altro. In più mio padre teneva sempre conto dell’opinione di mio zio; infatti una frase che lui asseriva sempre era: “Io non ho mai detto no a mio fratello”. Quindi erano molto simili, quasi gemelli: avevano gli stessi valori di onestà e rispetto verso gli altri e il loro lavoro, cosa che mi hanno trasmesso molto. Per il suo ruolo di regista, forse Zio sul set era molto più determinato e perfezionista sino ai minimi dettagli: nonostante si circondasse di grandi professionisti quali Piero Tosi ed Ennio Guarnieri, andava sempre a controllare il ricciolino nei capelli o l’arredamento, se un cuscino era posizionato in un modo o in un altro. Papà risolveva sempre i problemi con il sorriso; se qualcuno litigava, arrivava dicendo: “Ragazzi, stiamo facendo un bel lavoro: ditemi che cosa c’è e lo risolviamo”. Sosteneva che c’era sempre una soluzione e che quello non era un lavoro bensì un divertimento: non è che stavano andando a scoprire l’America o qualche medicina innovativa; quindi i problemi che si creavano erano tutti rimediabili, e farlo con un sorriso era il metodo migliore.
In particolare Mauro ha sempre cercato di girare titoli di qualità, traendoli frequentemente da grandi opere letterarie; mentre Manolo – nel corso della sua carriera di produttore – ha alternato diverse pellicole d’autore a molte altre di genere: come mai questa scelta da parte di tuo padre?
Zio amava molto leggere romanzi: per questo molti suoi film sono tratti da essi. A Papà invece piaceva più scoprire: lui adorava soprattutto i film western, ma era curioso di spaziare pure in altri generi. Se gli piaceva una storia che gli proponevano registi o sceneggiatori, lui la produceva: che fosse un poliziesco, un film impegnato o una trasposizione romanzesca.
A proposito di cinema letterario, quali punti di convergenza – ma anche di divergenza – potevano esserci a tuo avviso tra il cinema letterario di Mauro e quello di suoi colleghi anagraficamente più maturi quali Visconti, Soldati e Lattuada?
Zio era uno che sceglieva quello che gli piaceva; se leggeva un romanzo che lo attirava, diceva: “Questo lo voglio realizzare a tutti i costi”. Molti l’hanno paragonato un po’ a Luchino Visconti: tra l’altro io ho un suo telegramma a Zio in cui si complimentava per il film Libera, amore mio!. In quel periodo erano comunque tutti molto amici: non c’erano invidie, gelosie o rivalità; ognuno aveva il proprio campo e quindi faceva ciò che più gli aggradava.
Tu collabori col Centro Culturale Mauro Bolognini, ma un lustro fa hai anche pubblicato il libro intervista Manolo Bolognini: la mia vita nel cinema: come vivi oggi la responsabilità di serbare la loro memoria, e quali sono i tuoi progetti futuri in tal senso?
La responsabilità è enorme – più di quello che si possa pensare – , ma questo per me da sempre: avendo due persone così in casa, non mi è mai stato concesso di sbagliare. Ho dovuto essere molto attenta alle scelte che facevo: ancor’oggi infatti preferisco fare poche cose ma di qualità e soprattutto con gente seria. Innanzitutto mi ritengo io stessa una persona seria e onesta, eppoi non voglio rovinare il loro lavoro di una vita: cerco di far le cose con rispetto e dignità, come mi è stato insegnato. Dopo la morte di Papà, sono anche diventata socio onorario del Centro Culturale Mauro Bolognini: il relativo festival biennale aiuta tantissimo i giovani. Il mio prossimo progetto è il docufilm Compagni d’arte: mentre Figli del setl’ho realizzato totalmente a mie spese, questo è molto più impegnativo e ho bisogno di aiuti validi. Sono vent’anni di storia di cinema e d’Italia visti attraverso gli inizi di Papà e Zio insieme ai loro amici Piero Tosi e Franco Zeffirelli: spero di riuscire a metterlo in piedi perché è veramente una bomba.