Chiara Ricci: “Recitare è sempre stato un gioco per Monica Vitti”

Chiara Ricci: “Recitare è sempre stato un gioco per Monica Vitti”

A cura di Alessandro Ticozzi
 
 
Autrice di un volume a lei dedicato, la saggista racconta i passaggi principali della carriera della grande attrice capitolina.
 
 
Come avvenne per Monica il passaggio dai ruoli comici e brillanti – che la imposero sia in teatro sia in televisione nei primi anni Cinquanta – a quelli drammatici o, comunque, meno estemporanei e più complessi?
 
Monica Vitti – sin dall’inizio della sua carriera – ha sempre alternato ruoli comici e drammatici, passando da Euripide a Feydeau, da Molière a Brecht da John Osborne ad Alfred De Musset. In un primo momento, in realtà, l’attrice vede anche un po’ come uno spreco, un peccato che un attore o un’attrice si prestino al piccolo schermo sminuendo, così, la sacralità del Teatro. Ben presto, però, le sue idee cambiano radicalmente. Monica ha sempre conservato in sé in un’anima comica ancor più che drammatica eppure è sempre riuscita a trovare un equilibrio tra loro capendo quando dare maggiore spazio a una e quando all’altra. In tal modo non si è mai snaturata, così da non creare confusione né tra il pubblico né nella critica. L’attrice ha “semplicemente” colto e capito cosa le veniva richiesto di essere e di dare in un determinato momento della sua carriera e, da grande professionista e interprete, è riuscita nel suo intento e in quello dei suoi registi.
 
 
Sotto quest’ultimo registro, Monica fu diretta sulle scene da Michelangelo Antonioni nel 1957 (Io sono una macchina fotografica di John Van Druten, Ricorda con rabbia di John Osborne), mentre nel 1958 affrontò I capricci di Marianna di Alfred de Musset e nel 1964 Dopo la caduta di Arthur Miller: come visse quest’esperienze teatrali?
 
Monica Vitti ha sempre nutrito un profondo amore per il teatro. Basti pensare che al suo debutto, ancor prima di iscriversi all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”, a soli quattordici anni interpreta Anna Di Bernois, ovvero il ruolo della madre di due baldi giovani ne La nemica di Dario Niccodemi. Sin da allora non ha mai avuto paura di alterare la sua età o il suo aspetto fisico. Lo spettacolo prima di tutto! Inoltre, negli stessi anni in cui recita a teatro (parliamo degli anni Cinquanta) Monica Vitti per la televisione recita altrettanti testi teatrali in compagnia dei grandi attori del nostro Teatro (da Lilla Brignone ad Achille Millo, da Gianrico Tedeschi a Sergio Tofano) così da non sentire – se non per il diverso metodo di lavorazione – una marcata differenza. Allora il Teatro veniva “servito” anche in casa così da permettere al pubblico di crescere, conoscere, imparare, scoprire gli Autori che hanno reso grande la Letteratura e il Teatro. Per quanto riguarda il suo ritorno in palcoscenico nel 1964 a preoccupare di più Monica Vitti non è il contatto diretto con il pubblico quanto la responsabilità di interpretare il ruolo della protagonista che altri non è se non Marilyn Monroe in Dopo la caduta di Arthur Miller. A superare questo timore le è stato di grande aiuto Franco Zeffirelli, il regista dello spettacolo.
 
 
Cosa convinse invece Monica, nel 1962, a recitare nelle Notti bianche di Fëdor Michajlovič Dostoevskij diretta da Vittorio Cottafavi?
 
Credo essenzialmente la gran voglia di lavorare e al fianco di un regista di alto livello. Questa decisione di Monica Vitti non deve stupirci particolarmente perché solo qualche anno prima ha recitato per il piccolo schermo alcuni grandi classici del Teatro e della Letteratura: da Fermenti di Eugene O’Neill a Mont-Oriol di Guy de Maupassant, da L’imbroglio di Alberto Moravia a Il borghese e gentiluomo di Molière. Non è da sottovalutare, però, nemmeno lo spessore e la bellezza del personaggio di Nasten'ka, la protagonista del racconto di Fëdor Michajlovič Dostoevskij. Inoltre non è nemmeno da dimenticare la sua presenza ne Il cilindro di Eduardo De Filippo, mandato in onda nel 1978.
 
 
Fu tuttavia il cinema a darle notorietà internazionale con la tetralogia di Antonioni L'avventura, La notte, L'eclisse, Deserto rosso (1960-64), in cui creò quattro diverse immagini dell'inquietudine e della nevrosi femminile: quanto c’è di Monica in ciascuna di queste?
 
Monica Vitti, come si evince anche dalle sue dichiarazioni, è molto presente in ciascuno di questi film. In tal senso, la sua presenza non è solo attoriale ma psicologica, emotiva, reale. Tra l’altro, sempre con la sua proverbiale ironia, l’attrice ha più volte riconosciuto di avere delle situazioni irrisolte e che diverse sue conoscenze le abbiano suggerito di rivolgersi a degli specialisti del settore. Monica Vitti ha sempre rifiutato poiché erano proprio questi suoi disagi questi suoi timori interiori a fornirle lavoro. Così, una volta curati, si chiedeva: “ Come lavoro?”. L’avventura nasce da un fatto realmente accaduto. Monica, infatti, dopo un bisticcio con Antonioni o per il desiderio di voler star sola una volta sbarcata a Ventotene, dove si era diretta con il regista e altri amici, si allontana camminando e si perde. Ritrovata poi la sua compagnia chiede scusa del procurato allarme, dello spavento e della preoccupazione. In particolar modo si scusa con Michelangelo Antonioni che, invece, la ringrazia per aver fatto nascere in lui l’idea che poi diventerà L’avventura. Ne La notte e ne L’eclisse appare una Monica Vitti ambivalente, due facce di una stessa medaglia: mora nel primo film, bionda nel secondo. Anche in questo caso appare molto della sua sensibilità nei ritratti femminili cui dà vita sul grande schermo: apparentemente silenziosi, tranquilli, composti e dotati di un’interiorità che urla, scalpita, vuol farsi sentire… cercando di attraversare quel muro di silenzi, di pause, di sguardi rivolti all’altro e all’altrove che è l’incomunicabilità dei sentimenti e del proprio essere. Per ciò che riguarda Deserto rosso, invece, Antonioni porta sul grande schermo la depressione: proprio quella che in quello stesso periodo stava affliggendo e disorientando la sua attrice e musa al di fuori del set.
 
 
Da La ragazza con la pistola (1968) a Io so che tu sai che io so (1982), cosa spinse Monica a preferire poi la commedia all'italiana, all’interno della quale in quel quindicennio fu l’unica attrice a riuscire effettivamente a tenere testa ai suoi colleghi “mattatori” Alberto Sordi, Ugo Tognazzi, Vittorio Gassman e Nino Manfredi?
 
Monica Vitti decide di dedicarsi essenzialmente alla commedia all’italiana perché – nonostante i suoi esordi teatrali, la tetralogia dell’incomunicabilità, la sua perenne malinconia interiore – è decisamente e profondamente un’attrice comica. Monica Vitti sarebbe stata l’attrice perfetta per lo slapstick, per le celeberrime torte in faccia del cinema muto… L’erede al femminile della comicità di Buster Keaton. Essenziale, puntuale, persino crudele ma senza perdere mai un effetto. Chi meglio di lei avrebbe potuto accusare tutti quegli schiaffi che il Cinema italiano le ha inflitto? Chi avrebbe mai avuto quella sua ingenua faccia tosta di chiedere al proprio marito aiuto perché innamorata di un altro? Chi avrebbe potuto far passare la cecità per un atto di seduzione con uomini e donne senza venir accusata di immoralità? Chi, ancora, avrebbe avuto quel suo stesso coraggio – e con un’acconciatura quasi improponibile – di andare sino in Inghilterra per far giustizia al proprio onore? Di esempi credo ne potrei elencare ancora a centinaia… Come avrebbe potuto un’attrice “armata” di tanta ironia e talento non tener testa ai noti colonnelli della Commedia all’italiana?
 
 
Cosa indusse Monica nello stesso periodo a concedersi eccezionali parentesi dal genere con Miklós Jancsó in Italia (La pacifista, 1971), con Luis Buñuel in Francia (Il fantasma della libertà, 1974) e con La Tosca (1973) di Luigi Magni, senza contare il ritorno con Antonioni per Il mistero di Oberwald (1980)?
 
Basta dare una rapida occhiata all’intera filmografia di Monica Vitti per vedere e capire quanto sia eclettica e priva di qualsiasi etichettatura. L’attrice lavora con regista e attori non sempre di primo piano, impiegandosi anche in film di non altissimo livello o di non facile successo né di pubblico né di critica. Per quanto riguarda La pacifista è lo stesso regista ungherese Miklós Jancsó che esprime il desiderio di lavorare con la Vitti, la quale accetta di buon grado di interpretare il ruolo di una giornalista televisiva che subisce delle violenze e di cui si innamora un terrorista. Il film, però, non riscuote successo lasciando nella Vitti un profondo senso di amarezza per essersi sentita usata dal regista. Anche Luis Buñuel è affascinato dal talento di Monica e, sebbene in un primo momento venga fatto il nome di Carla Gravina, sarà proprio il regista a minacciare la produzione per non avere nessun’altra che Monica Vitti. E così sarà. Ma ancora una volta il successo fatica a decollare. Questi due esempi, però, non devono distogliere l’attenzione dalle altre perle di recitazione che la Vitti ci regala in questo decennio: da La Tosca di Luigi Magni (di cui si pensa anche di farne una versione musical per il Sistina) a Noi donne siamo fatte così di Dino Risi, da Teresa la ladra di Carlo Di Palma a L’anatra all’arancia di Luciano Salce. Invece Il mistero di Oberwald,diretto da Michelangelo Antonioni già nel 1979 e trasmesso l’anno successivo, è certamente l’occasione – specialmente per il pubblico – di ritrovare la grande coppia Antonioni-Vitti, ma per il regista è soprattutto un ottimo terreno di sperimentazione. Il film, infatti, è il primo – per il piccolo schermo – ad essere girato in video e poi riportato su pellicola. Non solo: il film è a colori e – proprio come accaduto, nel 1964, per Deserto rosso – ancora una volta il regista ferrarese coglie l’opportunità di sperimentare con i colori e con il loro potere emozionale ed emotivo.
 
 
Quanto fu importante per Monica il sodalizio sentimentale e artistico con Roberto Russo, che la diresse nei due film – da lei anche sceneggiati – Flirt (1983, per il quale l’anno successivo vinse il premio dell'attrice al festival di Berlino) e Francesca è mia (1986)?
 
Credo che per Monica Vitti il sodalizio sentimentale e artistico con Roberto Russo sia stato molto importante. Assieme hanno lavorato per il cinema e la televisione, creando e cesellando progetti molto intimi, molto importanti, molto singolari. Penso siano stati colleghi di lavori e grandi compagni di giochi poiché – pur con tutta la serietà e la professionalità dovuta e riconosciuta al proprio mestiere – per Monica Vitti ridere e sorridere lavorando è sempre stato di fondamentale importanza. Assieme hanno raggiunto traguardi professionali di notevole spessore e, professionalmente parlando, credo che Roberto Russo abbia fatto tutto il possibile per dare a Monica Vitti attrice la giusta “luce”, l’esatta “inquadratura” per valorizzarla e per far sì che il  suo pubblico la riconoscesse e continuasse ad amarla.
 
 
Cosa persuase in seguito la Vitti a diversificare la propria attività, tornando a lavorare in teatro (La strana coppia, 1987; Prima pagina, 1988) e televisione?
 
Gli anni Ottanta sono molto importanti nella carriera di Monica Vitti: potremmo dire che in questo periodo l’attrice compie un importante viaggio ritornando alle sue origini professionali. Infatti, tra il novembre 1985 e il gennaio 1986 Monica Vitti tiene dei seminari per gli studenti dell’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico”. Questo rientrare tra i banchi dell’Accademia e il rapporto creato con i suoi allievi (tra i quali vi sono, ad esempio, Pino Quartullo, Orsetta Gregoretti, Bruno Maccallini, Blas Roca Rey) probabilmente ha riacceso in Monica il desiderio di tornare a recitare a teatro – dove mancava dal 1964, ovvero da quando Franco Zeffirelli l’ha diretta in Dopo la caduta di Arthur Miller. Per quanto riguarda la televisione, invece, Monica Vitti non l’ha mai completamente abbandonata. Sin dal suo debutto, nel 1955, l’attrice – seppur con alcune pause dovute anche agli impegni professionali – non l’ha mai disertata. Anzi, indimenticabili ed esilaranti molte sue ospitate in quei varietà che hanno reso di grande qualità e spessore la nostra televisione. Sempre negli Ottanta, forse, la Vitti le regala qualche attenzione in più anche perché ben cosciente e consapevole della sua funzione e dei suoi meccanismi. Ed è proprio in questo periodo che inizia a raccontare di sé, della sua Storia del Cinema in programmi come La fuggidiva (di cui è anche regista assieme a Giuseppe Rinaldi), Qualcosa di Monica e Passione mia di Roberto Russo, ma anche in film per il piccolo schermo come il già menzionato Il mistero di Oberwald diretto da Michelangelo Antonioni.
 
 
Cosa convinse nel 1990 Monica a scrivere, dirigere e interpretare il film Scandalo segreto?
 
Probabilmente a convincere Monica Vitti a scrivere, dirigere e interpretare Scandalo segreto è la volontà, il forte desiderio di raccontarsi e di essere raccontata come mai è accaduto prima. Non è un caso che la sua coprotagonista nel film è proprio una macchina da presa che riceve in regalo e che diviene una sorta di suo prolungamento, di muta ma attenta testimone di tutto quanto le accade. Una fedele e silenziosa compagna che sa essere anche spietata. In questo film Monica Vitti – come già le era accaduto per Teresa la ladra – non bada minimamente al suo aspetto estetico, senza aver paura di mostrarsi struccata, scapigliata, in disordine come accade a tutte le persone che nella loro quotidianità si ritrovano nella comodità e nella praticità delle loro quattro mura. A tal proposito, proprio per sottolineare ancor di più quanto Monica Vitti volesse raccontare la sua verità e la sua essenza attraverso questo film (che tra l’altro, presentato al Festival di Cannes, inaugura la sezione Un Certain Regard) è bene ricordare che le riprese in interni sono state girate nella sua casa romana. Si tratta certamente di una prova artistica di grande coraggio che le ottenere il Globo d’oro come regista e come attrice. E questo Monica Vitti lo sapeva benissimo, com’è possibile notare dalle sue diverse interviste rilasciate nel periodo in questione.
 
 
Cosa invogliò nel 1993 Monica a pubblicare la sua autobiografia Sette sottane?
 
Personalmente credo che a spingere Monica Vitti a scrivere il suo libro autobiografico Sette sottane sia stato lo stesso motivo che l’aveva portata a realizzare Scandalo segreto, ovvero la grande voglia, l’esigenza e il desiderio di raccontarsi come mai era stato possibile fare. E chi meglio di lei avrebbe potuto raccontare – forte di quell’autoironia che da sempre la contraddistingue – la sua vita, la sua infanzia, il rapporto con la propria madre, i suoi esordi, la scoperta di quel “fuoco sacro” che l’ha portata a iscriversi all’Accademia, l’incontro con Antonioni… Si tratta anche di una sorta di autoaffermazione per l’attrice, la quale racconta con lo stesso entusiasmo e la stessa vivacità di una bambina che Sette sottane è proprio lei, poiché è così che veniva chiamata in casa e dagli amici di famiglia quando, bambina per attirare l’attenzione su di sé, mostrava tutte le sette sottanine che la mamma le faceva indossare per non farle sentir freddo.
 
 
Cosa significò per Monica il Leone d'Oro alla carriera che nel 1995 le venne assegnato al Festival del Cinema di Venezia?
 
Questo riconoscimento è stato molto importante per Monica Vitti. Il Leone d’Oro alla carriera le è stato consegnato da Gian Luigi Rondi durante la 52° Mostra del Cinema di Venezia. Non è un caso che proprio in questa stessa edizione, in questa stessa serata, lo stesso riconoscimento venga consegnato anche al suo caro amico e collega Alberto Sordi. Monica Vitti riceve questo Premio con quell’allegria ed entusiasmo che la contraddistinguono, pronta a volare – come ha dichiarato nel suo breve discorso di ringraziamento – ancora per tanti anni sulle ali di quel leone per regalare il sorriso al suo pubblico.
 
 
Quattro anni fa hai dedicato a Monica il tuo saggio Recitare è un gioco, edito da AG Book Publishing: cosa significa ricordarla oggi, nonostante la malattia l’abbia costretta al ritiro dalle scene e dalla vita pubblica da tantissimi anni?
 
Nel 2016 – d’accordo con la Casa Editrice AG Book Publishing, e dopo aver avuto il consenso di Roberto Russo – ho deciso di dedicare all’attrice il mio saggio Monica Vitti. Recitare è un gioco. Ciò che più mi interessava e mi premeva realizzare non era un libro “in memoria di”, essendo a tutti note le condizioni dell’attrice; né avevo intenzione di andare a scovare pettegolezzi o rumors. La mia intenzione, da storica e critica del Cinema, era di raccontare, far conoscere alle nuove generazioni e ricordare a chi ha avuto la fortuna di vivere determinati momenti del passato la figura di Monica Vitti, attrice e donna. Ho iniziato il mio lavoro tentando di conoscere la donna Maria Luisa Ceciarelli, la sua infanzia, i suoi pensieri, le sue emozioni, i suoi timori, i suoi sbalzi di umore… e da donna e studiosa ho cercato di intessere e creare un certo dialogo tra noi. Ed ho conosciuto una donna dalle mille sfaccettature, imprevedibile, sorprendente! Da qui sono arrivata all’attrice, affrontando la sua carriera anche attraverso lo sguardo di chi l’ha conosciuta come collega o come amica. È stato un viaggio meraviglioso! Io sono un appassionata sostenitrice del valore e dell’importanza della memoria – più e meno recente – , e Monica Vitti merita di essere ricordata e valorizzata nonostante il suo ritiro. È tra le migliori attrici comiche italiane che abbiamo mai avuto da sempre, una eccezionale interprete… e merita di essere conosciuta! Il suo stato di salute l’ha condotta in un mondo assolutamente lontano dal nostro: ma è con noi, c’è! Basti guardare tutti i film che passano in televisione. Sfruttiamo la nostra memoria per omaggiare chi è il nostro patrimonio intellettuale e culturale… iniziamo ora e non solo quando la memoria diventerà un “coccodrillo”.

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