Emilio Bonucci: “Il teatro, un marchio di famiglia tramandatomi da papà Alberto”
a cura di Alessandro Ticozzi
L’attore riassume i tratti essenziali della carriera scenica del padre, con il rammarico di aver vissuto – rispetto a lui – la stagione meno fulgida dello spettacolo italiano.
Una volta diplomatosi all'Accademia d'arte drammatica, Alberto fu – con Vittorio Caprioli e Franca Valeri – uno dei fondatori del Teatro dei Gobbi (1950): quale fu il suo personale apporto alla compagnia rispetto ai due colleghi sopraccitati?
Non è andata esattamente così: i Gobbi sono nati durante una tournée invernale di Strehler, che aveva portato a Parigi tre spettacoli fatti col Piccolo di Milano. La sera al ristorante s’incontravano per cenare con papà Luciano Salce e Vittorio Caprioli, che erano stati suoi compagni d’Accademia: lì cominciarono a scrivere delle piccole cose che subito dopo recitavano nel palcoscenichetto dello stesso ristorante, fatto apposta per chi voleva esibirsi. Quindi al debutto parigino i Gobbi erano composti da mio padre, Vittorio Caprioli e Luciano Salce: quest’ultimo decise poi di partire per il Brasile insieme ad Adolfo Celi, che aveva avuto l’occasione di potervi aprire un teatro. Pertanto cercavano chi potesse sostituirlo: pensando a una donna, l’hanno chiesto a Franca Valeri, un attrice rifiutata dall’Accademia d’arte drammatica che iniziava a fare una bella carriera. Prima erano tre maschi: era tutto molto diverso. Nel momento in cui è entrata Franca, si sono un po’ spaiate le cose: lei si è messa insieme a Vittorio Caprioli, e – quando hanno cominciato a non andare d’accordo sul lavoro – papà se ne andò per conto suo. Franca Valeri e Vittorio Caprioli ripresero Salce – che nel frattempo era tornato in Italia – e fecero uno spettacolo intitolato L’arcisopolo.
Con quale approccio Alberto svolse successivamente un intensa attività in importanti formazioni di prosa e rivista e alla televisione?
Quando lasciò i Gobbi, lui allestì lo spettacolo Senza rete: pure quello debuttò a Parigi, raccogliendo tutta una banda di talenti appena usciti dall’Accademia quali Monica Vitti, Paolo Ferrari, Marina Bonfigli, Lina Wertmüller,Paolo Panelli e Francesco Mulè. Lì la messinscena ebbe successo, mentre non ebbe lo stesso esito in Italia; a quel punto papà disse: “Non accettano le mie proposte? Adesso mi vendo”. Così si vendette al miglior offerente scenico, che a quel tempo erano Garinei e Giovannini: quindi con loro ha cominciato a fare spettacoli, per poi debuttare anche in televisione.
Lei è un attore dedito soprattutto al teatro di prosa: cosa pensa di avere ereditato in tal senso da Suo padre?
Io ho fatto quasi sempre il teatro off più “duro”, lavorando sotto la regia di Ronconi, Cobelli, Trionfo e Strehler. Nella mia vita artistica ho incontrato “virtualmente” papà solo con due spettacoli firmati da Andrée Ruth Shammah che appartenevano molto al suo genere: ne La doppia incostanza di Marivaux impersonavo Trivellino, che faceva coppia comica con Arlecchino. Molti hanno detto che lì in qualche modo ricordavo mio padre: non l’avevo premeditato, possedendo già nel sangue quel tipo di umorismo. Mentre in L’ebreo – che segnava il debutto teatrale di Ornella Muti, salutato giustamente da un grande successo – io feci una cosa che un po’ mi riportava alle persone da cui avevo acchiappato la comicità di quell’epoca. Erano continuamente ospiti di casa mia, da Panelli a Manfredi: tutti quei compagni di Accademia più giovani di papà per cui lui cucinava continuamente. Prima di Tognazzi, mio padre fu un grande riunitore di compagnie attraverso la tavola: e – come lui – sosteneva che il suo vero mestiere era il cuoco, mentre l’attore lo faceva per hobby.
Cosa vorrebbe dire a Suo padre oggi se avesse la possibilità di rincontrarlo?
Papà se n’è andato troppo giovane: a causa di una disfunzione alla valvola mitralica, aveva subìto un operazione al cuore che era riuscita benissimo. Tuttavia avrebbe dovuto cambiare vita: soffrendo per amore, ha invece ricominciato a bere e a fare tutte quelle cose che lo hanno ucciso in breve tempo. Penso a mio padre come a un bambino: quand’è mancato aveva cinquant’anni – età che io avevo un ventennio or sono, quindi faccia un po’ Lei i conti. Con lui ammetterei che ho avuto la sfortuna di aver attraversato il periodo meno fertile di quello che lui amava: tra teatro, cinema e televisione, tutta quell’arte che ha vissuto nel momento più alto. S’è perso il disfacimento: almeno in questo senso a mio avviso è stato fortunato.