Enrica Tedeschi: “Mio padre Gianrico, il ‘teatro per la vita’ lungo un secolo”

Enrica Tedeschi: “Mio padre Gianrico, il ‘teatro per la vita’ lungo un secolo”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
 
Partendo dal suo volume dedicatogli l’anno scorso, la figlia del grande attore teatrale milanese ne tratteggia gli aspetti peculiari – sia umani che recitativi – in occasione del 100° compleanno.
 
 
 
Com'è nata in Lei l'idea di sviluppare questo volume dedicato a Suo padre?
 
 
L'idea è nata, in primo luogo, per una spinta affettiva di carattere familiare. Volevo che tutta la nostra famiglia, anche i discendenti, fosse ben consapevole del ruolo che mio padre ha avuto, sia nel percorso storico-politico di questo Paese, sia nella crescita qualitativa del teatro italiano. Gianrico si è trovato, un po' per caso, un po' per talento innato, un po'per scelta consapevole, al centro di eventi straordinari. Tedeschi ha fatto storia, sia quella d'Italia, sia quella del teatro moderno.
Queste cose non si percepiscono con chiarezza quando le vivi, ma solo dopo un certo periodo di tempo. Inoltre, di una persona cara che vivi come marito, padre, nonno o zio, non vedi sempre il peso, il ruolo pubblico, anche se si tratta di un personaggio pubblico.
Volevo che tutti i membri della nostra famiglia capissero a fondo cosa ha rappresentato Gianrico Tedeschi per il Paese e per il teatro italiano.
Poi però ho capito che stavo scrivendo anche per gli Italiani in generale, soprattutto quelli impegnati nel mondo artistico e anche quelli semplicemente testimoni della nostra storia.
Le scelte di mio padre sotto il regime fascista e nei lager nazisti sono state ufficialmente riconosciute come "Resistenza", una parola che oggi deve essere ricordata con più forza e convinzione, perché ci sono frange pericolose della nostra società che la mettono in discussione. Mio padre fu un resistente a tutti gli effetti.  Il giovanissimo tenente Tedeschi di anni 21 fu catturato dai nazisti a Volos, in Grecia, dopo l'8 settembre, e deportato con tantissimi altri nei campi di concentramento di Lipsia, Benjaminovo, Sandbostel, Witzendorf.  Pur minacciato, rifiutò di aderire alla repubblica fascista di Salò e rifiutò anche di lavorare per i tedeschi. Questo NO pronunciato da altri 600.000 italiani, minacciati e ricattati, fu un atto di coraggio ed eroismo. Molti morirono di stenti, malattie, fame, ritorsioni. Gli italiani del NO furono trattati dai tedeschi come gli ebrei, i comunisti, gli omosessuali. Non furono gasati. Ma per il resto il trattamento fu disumano, basti pensare che non gli furono riconosciuti i diritti di prigionieri di guerra e della convenzione di Ginevra.
Questo è un fatto che deve essere sempre presente alla nostra coscienza nazionale. Non sarebbe esistita l'Italia libera e democratica senza il coraggio di questi soldati, paragonabili ai partigiani sulle montagne.
Inoltre, in questo scenario apocalittico, lui scoprì in modo definitivo i suoi talenti teatrali, perché nelle baracche dei lager ha portato la voce e l'energia del teatro, ha portato la cultura, l'arte, cioè quella consapevolezza dell'essere umani che ha dato ai prigionieri la forza di continuare a vivere.
 
 
 
Attivo dagli anni Quaranta del secolo scorso sulle scene di prosa e su quelle di rivista e commedia musicale, in teatri stabili (tra cui il Piccolo Teatro di Milano), in compagnie private di rilievo e in teatri “da camera”, egli ha acquistato popolarità con interpretazioni di una comicità pittoresca e accesa: come avvennero tutti questi passaggi nella sua carriera scenica?
 
 
Più che di passaggi, parlerei di compresenze: non vedo la sua carriera come un percorso lineare, ma piuttosto come un mosaico che progressivamente si arricchisce di nuove tessere. Una chiave di lettura delle sue scelte artistiche è la tendenza al moderno e alla provocazione. Il pubblico sa già tutto, quando viene a teatro.  Specie con i classici, che ha già visto. Ma la sfida è proprio questa: raccontare la storia in un modo diverso, nuovo, che sia divertente ma che costringa il pubblico a riflettere sulle condizioni della sua vita e, quasi sempre, anche della vita sociale.
Pirandello, per esempio, può essere rappresentato in modo antiquato, facendo leva sulla sua sicilianità, fino a sfiorare il folclorico. Ma, in un’ottica moderna, le sue storie sono archetipali, riguardano movimenti psichici e relazioni umane che sono universali. Questo può destabilizzare il pubblico, metterlo in crisi, costringerlo a riflettere sulla propria vita.
Ecco: i passaggi della sua carriera, se ci sono stati, hanno avuto questo segno, di scegliere quelle opere, testi, autori, registi, colleghi che avessero la voglia e l’intelligenza di mettere in discussione le strutture sociali codificate, le culture dominanti.
Cambia poco se questo approccio si serve di una commedia, un dramma, un’operetta, una farsa. Non contano i generi, conta il modello della comunicazione. Ti racconto Pirandello, ma non come un classico del secolo scorso che parla di cose passate, bensì come un tuo contemporaneo che parla di cose che tu conosci benissimo, e facendo così ti metto a nudo e mino le tue sicurezze inconsce.
Questa è la sua visione e questa ha guidato, di volta in volta, i contratti che ha firmato.
 
 
 
Quali sono secondo Lei le caratteristiche peculiari del suo stile recitativo, e cosa possiamo ritrovare di queste in sue interpretazioni più recenti quali il Cardinal Lambertini di Alfredo Testoni (1982), l'Anfitrione (1983, di cui ha curato anche la traduzione e la riduzione da Plauto), La rigenerazione di Svevo (1986), Tutto per bene di Luigi Pirandello (1988) e Sior Todero brontolon (1999) di Carlo Goldoni?
 
 
Lo stile di Gianrico è la sobrietà, la misura. Il titolo del libro – che è una battuta, un “soggetto” che lui introdusse nell’opera goldoniana Arlecchino servitore di due padroni, e che Strehler apprezzò al punto da inserirla stabilmente nel copione – sintetizza molto bene il suo modo di recitare, ma anche il suo stile di vita. 
Semplice: privo di orpelli, essenziale, sobrio. Buttato via: senza retorica, senza enfasi, senza ideologia. Moderno: diretto, autoriflessivo, tagliente.
Gianrico è così anche nella vita quotidiana. Mai sopra le righe, appartato, coltiva un profilo basso ma non disattento. È pronto a cogliere le contraddizioni, le assurdità e i paradossi. Non fa sconti a nessuno, in primo luogo a se stesso.
Con questo carattere personale, è un attore molto aperto e poliedrico. Passare dal tragico al comico per lui è facilissimo. E ancora più facile è mescolare il tragico con il comico, che è una cifra della modernità.
Direi che a lui si addicono moltissimo le riflessioni e le “proposte” di Italo Calvino nelle Sei lezioni americane. La letteratura del terzo millennio, secondo Calvino, deve coltivare alcune qualità, che sono: la leggerezza, la molteplicità, la rapidità, l’esattezza, la visibilità, la concretezza.
Quando ho letto il libro di Calvino, ho pensato che era un ritratto fedele di mio padre e della sua recitazione.
È lo stesso filo rosso che lega testi molto distanti fra loro, come quelli di Svevo, Pirandello, Goldoni…
 
 
 
Quali insegnamenti crede lasci Suo padre ai nostri attori teatrali che sono venuti e che ancora verranno dopo di lui?
 
 
Il lascito ai giovani è chiarissimo. Il fatto che abbia iniziato a recitare per i compagni di prigionia, nei diversi lager in cui è stato imprigionato, è già un messaggio di per sé. L’arte è un’arma potente per coloro che soffrono, che sono sfruttati e privati della libertà. L’arte gli permise di difendersi dalla violenza, dall’arroganza del potere politico, del conflitto sociale e culturale. Con l’arte costruì ponti di comunicazione, solidarietà, mutuo soccorso con gli altri prigionieri, perché il teatro è sempre dalla parte della libertà, della verità, della giustizia sociale. 
Questo suo vissuto consegna ai giovani artisti di oggi un doppio messaggio: in parte funzionale, in parte stilistico. Il messaggio funzionale riguarda il rapporto fra teatro e società. Il teatro è specchio e riflesso della società. La società, attraverso il teatro, si guarda, si riconosce, si comprende, analizza le proprie contraddizioni. Attraverso le immagini che restituisce il teatro, la società può fare i conti con le proprie scelte, correggere gli errori, esorcizzare le negatività.
Mio padre dice sempre che non dovrebbero esistere solo i grandi teatri dei centri storici, ma che sono necessari anche piccoli teatri locali, nei quartieri, nelle periferie. Il suggerimento è che occorre contrastare il livellamento culturale verso il basso e fare il contrario, cioè portare la cultura alta alle classi svantaggiate, agli esclusi.
Il messaggio stilistico riguarda la relazione fra i diversi generi teatrali che, fino a tutto l’Ottocento, era rigida e codificata: i generi erano ben definiti e distinti. Il teatro moderno, invece, accoglie le contaminazioni fra i generi ed elabora orizzonti culturali più aperti e liberi. La commistione fra comico e tragico, come ho già detto, è un tipico tratto della modernità. Nel nostro Paese, questa prospettiva comincia ad affermarsi nei primi decenni del Novecento e Gianrico la coglie immediatamente. Il rinnovamento riguarda la costruzione del personaggio, la cifra della regìa, l’ermeneutica del testo. Già nei lavori degli anni Cinquanta e Sessanta, questa impronta di novità è ben visibile nelle sue scelte e nel suo percorso artistico. Poi si approfondisce e si articola sempre di più.
Da questo punto di vista, il messaggio ai giovani attori è quello di non appiattirsi su cliché ripetitivi, ma manifestare la propria creatività, andando sempre oltre le regole canoniche, il conformismo artistico.  Un’arte conformista è una contraddizione in termini, e mio padre lo ha dimostrato per tutta la vita, a partire dalla ribellione contro il nazi-fascismo, sino alla messa in discussione dei modelli culturali perbenisti dei decenni successivi.
Il teatro deve svelare, non nascondere. Questa è la sintesi del suo pensiero per i giovani.

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