Eugenio Finardi: "Le radio universitarie: radio libere, ma libere veramente"
Com'è nata la Sua canzone La radio, inno delle radio libere italiane?
È nata andando a fare la trasmissione che tenevo tutte le notti a Radio Milano Centrale, che era la prima radio libera - ma libera veramente - in Italia, la seconda in assoluto dopo Radio Milano International. Io facevo il programma della notte: avevo come sigla un brano dei Tenores del coro di Orgosolo che si chiamava Barones sa Tirannia, una canzone rivoluzionaria in sardo, e Mario Luzzatto Fegiz, che era direttore di questa radio, si chiedeva se ci poteva essere magari un qualcosa di un po’ più italiano. Allora io, un po’ per ripicca, andando a fare la trasmissione ho scritto in venti minuti questa canzone.
Cos'hanno significato le radio libere italiane per la controcultura degli anni Settanta?
Tantissimo: hanno per la prima volta dato in mano alla gente la comunicazione. La RAI prima era una specie di Nonna Papera che controllava tutto: il mio primo disco Non gettate alcun oggetto dal finestrino del ’75 fu completamente censurato dalla RAI per i suoi contenuti politici. C’era una censura molto forte che permetteva anche un controllo delle menti, e quindi con quella sentenza della Corte di Cassazione che liberava l’etere si liberò anche tutta la voglia di un Paese di dire la sua, dalle dediche alle tirate politiche. Fu un momento di grande liberazione: bisogna averlo vissuto per capire quanto fosse importante per gli italiani allora il fenomeno delle radio libere per sentirsi normali come gli altri Paesi del mondo.
Come giudica il film Radiofreccia di Luciano Ligabue come spaccato di quel periodo?
Mi è sembrato abbastanza fedele nella sua riproduzione di com’era lo spirito di una radio libera, anche se la cosa che rimprovero a Liga è che non ha messo la canzone La radio, che era veramente l’inno di tutte le radio libere di allora, ma lui ha scelto di mettere solo artisti stranieri.
Secondo Lei quali analogie e differenze ci sono tra le radio libere di allora e le radio universitarie di oggi?
Sono come le radio libere di allora: la differenza è che sono sempre all’interno di un istituzione, mentre noi eravamo liberi del tutto.
Nonostante una sempre maggiore attenzione nei confronti delle radio universitarie in quanto voce “fuori dal coro” degli atenei - qui in Italia e non solo - diverse di queste sono spesso costrette a chiudere per mancanza di fondi: Lei cosa ne pensa in merito?
È un dramma della comunicazione libera: i soldi vengono dati a chi fa comunicazione pilotata, non a chi è libero veramente. È un dramma della nostra società in generale.
Qual'è il Suo augurio per il futuro delle radio universitarie?
Io ho imparato a fare radio proprio in una radio universitaria negli Stati Uniti: nella Università di Tufts c’era una radio molto bella dove ho ottenuto la mia prima trasmissione radiofonica. Io credo che anche con la mancanza di fondi le radio universitarie debbano vivere, come i giornali universitari e le attività teatrali: la radio è cultura, e oltretutto il mezzo radiofonico fatto in maniera indipendente - al di fuori delle playlist e di tutte le caratteristiche delle radio commerciali - può diventare addirittura una forma artistica.