Felice Cappa: Il teatro in Italia secondo Giorgio Albertazzi e Dario Fo

Felice Cappa: Il teatro in Italia secondo Giorgio Albertazzi e Dario Fo

 
 
FELICE CAPPA: “IL TEATRO IN ITALIA SECONDO GIORGIO ALBERTAZZI E DARIO FO”
 
di Alessandro Ticozzi
 

 
L’autore televisivo lucano rievoca la sua entusiasmante esperienza al fianco dei due grandi “mattatori” delle scene -scomparsi nel 2016- per la trasmissione RAI da lui ideata sulla storia del nostro teatro.
 

 
Com’è nata l’idea di coinvolgere Giorgio Albertazzi e Dario Fo – due uomini così diversi e due idee di messinscena così opposte – in una serie di lezioni spettacolo riprese dalle telecamere di Raidue quale Il teatro in Italia?
 
Ricostruire la storia del teatro in Italia vuol dire raccontare la nostra cultura e società, oltre a ciò che è accaduto intorno a quello che era – se vogliamo chiamarlo in modo un po’ anacronistico – il mass media dell’epoca. Il teatro infatti era il luogo in cui la comunità si ritrovava e – in qualche modo, a seconda dell’epoca e dei luoghi – cercava di rappresentarsi in modo critico o encomiastico: che fosse dal punto di vista del popolo, degli artisti e degli intellettuali o da quello della corte e dei potenti, il pendolo del senso teatrale oscillava tra questi due ambiti. Per raccontare tutto questo era quindi necessario affrontare la complessità presente alle spalle di questo mondo: mi era quindi sembrato opportuno proporre di farla interpretare a due grandi che avevano attraversato il Novecento con diversi punti di contatto, ma anche molte differenze. C’era stato invero un precedente: le prime attività da me svolte all’interno della RAI portarono alla ripresa televisiva de Il Papa e la Strega, uno spettacolo scritto da Fo e messo in scena da Albertazzi con la propria regia, utilizzando Franca Rame tra gli interpreti. Quindi c’era già stato un contatto tra i due: comunque si conoscevano da sempre, e sapevo di poter contare su una reciproca simpatia. Quello che li accomunava era una sorta di anarchismo che con gli anni era diventato sempre più evidente, nonché un insofferenza nei confronti del potere e soprattutto del teatro poco interessante e sperimentale, pur essendo due grandi vecchi del palcoscenico. Contando appunto su questi canoni che in qualche modo li avvicinavano, li ho convinti a lavorare insieme a questo progetto. Ovviamente all’inizio ci sono stati non solo momenti di gioia, ma anche fasi alterne: ci furono anche – e del resto ciò era inevitabile – attriti e divergenze, però sempre superate con uno spirito comune che era quello di mettere in piedi un lavoro interessante e lasciare un opera importante non solo ai fini della pura messinscena in sé, ma anche con l’ambizione di rappresentare un punto di vista critico. Pertanto per raccontare tale complessità era necessario avere due punti di vista abbastanza diversi: da una parte l’autore, il narratore e il teorico qual’era Dario Fo, un artista che partiva principalmente da un idea e un concetto di teatro che aveva un forte impatto fisico e visivo, in cui quello che metteva in scena erano appunto azione ed immagine; dall’altra invece l’interprete che, servendosi della parola – e con una memoria prodigiosa com’era quella di Albertazzi – , riusciva a colorire tutte le sfumature del testo, forte anche di una grande capacità di scrittura scenica dovuta all’esperienza accumulata lavorando con grandissimi registi, da Visconti a Resnais. Questi due aspetti si conciliavano alfine perfettamente: a volte si sono fusi assieme, mentre altre si sono separati nell’affrontare la propria parte – sempre però senza mai ignorarsi. Non erano infatti due percorsi paralleli, bensì due linee che continuavano ad intrecciarsi: credo che l’interprete e l’autore-narratore siano stati due punti di vista interessanti da compenetrare. Non credo che l’effetto fosse così originale per il pubblico più attento: Dario ha infatti praticato nei primissimi anni della sua carriera il teatro borghese – che invece ovviamente Albertazzi ha frequentato molto di più, soprattutto per esigenze di mantenimento della propria compagnia. Li accomunava inoltre la necessità di dare un senso profondo a quello che veniva allestito: se Dario lo concentrava maggiormente all’interno della cronaca politica, Albertazzi lo collocava di più nella necessità dell’artista di emanciparsi dal potere e di avere una propria aura che gli permettesse di non essere al soldo di nessuno.
 
Che ricordi ha del periodo in cui stava girando la trasmissione insieme a Fo e Albertazzi?
 
Molto divertenti, in quanto – sia durante la scrittura dei testi, cui io partecipavo mettendoli insieme o separatamente, che durante le cene o le prove – era un continuo fluire di aneddoti sia sui grandi protagonisti del teatro del Novecento che su pittori, intellettuali, scrittori e giornalisti. Da parte loro c’era la voglia di stare insieme in amicizia, oltre ad una forte insofferenza nei confronti della banalità: non facevano mai le cose tanto per farle, ma si impegnavano sempre dandoci e dandosi molto. Lavoravano infatti tantissime ore al giorno con una grande capacità sia di mettere in discussione il potere e di determinarlo che di prendere un percorso dall’inizio aggiornandolo e rivedendolo, oltre ad essere dotati di un grande istinto nel tenere la scena. Credo che tutto questo abbia poi determinato il risultato di una straordinaria trasmissione: era infatti un programma in cui giravamo le città vivendole e incontrandone gli abitanti per soddisfare la loro sete di conoscenza.
 
Per una strana coincidenza sia Albertazzi che Fo sono venuti a mancare ormai novantenni a pochi mesi di distanza l’uno dall’altro: cosa pensa rimarrà della loro eredità umana e artistica alle future generazioni?
 
Il piacere di sporcarsi le mani con grande coerenza, nonché la passione e l’intelligenza di non fermarsi alla prima soluzione, cercandone sempre di nuove. Hanno sempre dichiarato le loro passioni politiche, pur essendo molto diverse: tuttavia erano molto più vicini di quello che si può credere. Detestavano il potere, la noia e il servilismo: erano due grandi protagonisti, a dimostrazione che è fondamentale anche il coraggio e la sincerità nell’affrontare le proprie contraddizioni. La comune vicinanza alla Repubblica di Salò fu per Albertazzi una ferma convinzione, mentre per Dario una necessità di sopravvivenza: ciò tuttavia dimostra che anche da ragazzi erano persone non indifferenti. Questa era sicuramente la loro bandiera: parliamo di persone di grandissimo spessore – oltre che di due maestri nell’arte teatrale, dotati di una vivissima curiosità anche per altre espressioni artistiche.
 
Se un domani si potesse riprendere un progetto simile a Il teatro in Italia, chi sceglierebbe personalmente tra i protagonisti del palcoscenico attualmente emergenti?
 
D’istinto mi viene da fare i nomi di Filippo Timi e Marco Paolini: due artisti diversissimi tra loro per gusto e approccio alla messinscena, ma proprio per questo assai interessanti.
 

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