Franco Branciaroli: “I testi classici per esprimere sulla scena le mie peculiarità attoriali”

Franco Branciaroli: “I testi classici per esprimere sulla scena le mie peculiarità attoriali”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
Il grande attore milanese racconta i suoi maggiori successi teatrali, ricordando i più importanti registi che l’hanno diretto (Trionfo, Ronconi, Calenda…): con una nota affettuosa – in una carriera cinematografica assai esigua – per l’ineffabile Tinto Brass.
 
Dopo essersi affermato allo Stabile di Torino in alcuni spettacoli diretti da Aldo Trionfo (Nerone è morto di Hubay, Gesù di Dreyer), Lei ha poi dato il meglio di sé lavorando con Luca Ronconi (La torre di Hofmannsthal, Spettri di Ibsen, Besucher di Strauss) e interpretando alcuni testi di Giovanni Testori quali Verbò (1989) e Sfaust (1990): cosa ricorda di questo Suo percorso scenico?
Emotivamente non rammento nulla in quanto il cervello di un attore di teatro – che è costretto a memorizzare migliaia e migliaia di parole per ogni copione – poi le espelle per forza di cose, cosa necessaria per impararne uno nuovo. È abbastanza incredibile per la gente credere che un interprete non ricordi assolutamente niente dei testi che ha recitato, se non qualche aspetto scenografico: ma anche lì poco, perché l’attore generalmente dà le spalle alla scenografia in cui è collocato. Pertanto io – più che gli spettacoli – ricordo le persone con cui ho lavorato: Trionfo, Ronconi e Testori sono assolutamente differenti tra loro. Innanzitutto Testori è un autore, mentre gli altri due sono registi: poi hanno un idea di teatro completamente opposta. Mentre nel teatro di Ronconi la scenografia è fondamentale, per Testori non conta niente; tant’è che diceva: “Una volta c’erano delle scenografie di cartone e degli attori di carne: adesso abbiamo degli attori di cartone e delle scenografie di carne”, a sottolineare che la scenografia era diventata più importante. Anche Trionfo non aveva nulla a che fare con Ronconi: il teatro di quest’ultimo tendeva al grande stile e ad un estremo rispetto dei testi, con i quali invece Trionfo giocava. Il suo era un teatro di mobilità cabarettistica tradizionalmente europea che precorreva le avanguardie: tuttavia – se mal intesa – tale dissacrazione può produrre quegli effetti di tipo distaccato che caratterizzano parecchi allestimenti contemporanei.
 
Lei ha esordito sul grande schermo sotto la regia del controverso Miklós Jancsó nel film Vizi privati, pubbliche virtù (1976): che ricordo ha di lui come uomo e come regista?
Miklós Jancsó era un autentico vampiro della Transilvania: aveva due canini appuntiti esattamente come Dracula ed era dotato di una resistenza fisica incredibile, dal momento che – ormai settantenne – in autunno inoltrato si tuffava nella piscina del proprio castello ottocentesco; inoltre alle cinque di mattina mangiava lardo fuso sul pane accompagnandosi con due slivovizze. Il film non funzionò perché – essendo Jancsó un regista che usava parecchio il piano sequenza, mentre il campo-controcampo non era proprio la sua specialità – alla fine produsse una pellicola né carne né pesce che non ebbe assolutamente successo.
 
La Sua attività cinematografica è poi proseguita sotto la direzione di Tinto Brass, avendo Lei appunto partecipato a La chiave (1983), Così fan tutte (1992) e L’uomo che guarda (1994): cosa ricorda più volentieri del vostro sodalizio?
Nei film di Tinto Brass ci si divertiva molto: era un grande cineasta, dalla conoscenza tecnica talmente profonda da permettergli di montare da solo i propri lavori. Tuttavia io avevo delle parti totalmente relative che facevo in amicizia, in quanto le sue protagoniste sono sempre state le donne: mi scritturava più che altro come portafortuna.
 
Nel 1998 Lei è tornato al teatro con il Riccardo III di William Shakespeare diretto da Antonio Calenda, cui fecero seguito nel 2001 Gli angeli dello sterminio al Teatro di Verdura e – nel 2004 – Angelo della gravità di Massimo Sgorbani, per la regia di Benedetta Frigerio, ed Edipo e la Sfinge di Hugo von Hofmannsthal: è pertanto comunque il palcoscenico il Suo più autentico amore?
Non c’è confronto: nel cinema io ho svolto unicamente delle prestazioni occasionali, ma non faccio parte di quel mondo. Quando mi trovo a recitare sulla scena, tuttavia non provo niente: esprimo soltanto la qualità – che qualcuno m’ha donato – di essere un interprete. Mi piacciono molto i grandi testi: non apprezzo granché quelli contemporanei perché sono esangui. Gli attori si dividono in due categorie: chi sa fare il re e chi non lo sa fare, e io faccio parte della prima. Non percepisco nulla, se non una personale esaltazione che riguarda esclusivamente me: è una musica personale che sento interiormente, possedendo alcuni segreti personali nel recitare gli straordinari testi di questi magnifici drammaturghi.
 
Cosa L’ha spinta nel 2005 a interpretare un Suo testo quale Lo zio, con la regia di Claudio Longhi, e poi nel 2006 ad autodirigersi in Finale di partita di Beckett?
Nessuno mi ha spinto: è evidente che un attore immerso nel teatro fino al collo come me – se gli vengono delle idee – prova anche a scrivere dei testi scenici. Del resto questi sono stati quasi sempre scritti da attori: sono rarissimi quelli composti dagli scrittori, e solitamente sono brutti. Inoltre è errato dire che si scrive un copione teatrale, quando questo viene tradizionalmente assemblato: quindi non c’è niente di strano che per divertimento c’abbia provato anch’io. Non è che poi pensassi di continuare a farlo: era ovvio che tornassi ad autori importanti come Beckett.
 
È forse per sostenere dei giovani esordienti che Lei nel 2007 partecipò ad una piccola produzione cinematografica quale Gli Arcangeli?
Proprio così: vennero a casa mia dei ragazzi a chiedermi se volevo prendervi parte e – essendo girata lì vicino – l’ho fatto.
 
Che bilancio trae della Sua vita privata e professionale?
Tanto per cominciare, meno male che sono vivo! Quello personale riguarda soltanto me, e quello professionale direi scenicamente buono: una bella carriera per quel che può concedere un Paese come questo al teatro.
 
Ha qualche progetto per il futuro?
 
Quelli ci sono sempre!

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