Gabriele Lavia: “Il teatro, una paideia collettiva destinata a vivere eternamente”

Gabriele Lavia: “Il teatro, una paideia collettiva destinata a vivere eternamente”

A cura di Alessandro Ticozzi
 
Il grande attore e regista milanese racconta i passaggi più significativi della propria carriera teatrale, pur con occasionali incursioni cinematografiche.
 
 
Lei si è presto affermato come uno dei più dotati interpreti della Sua generazione con registi come Aldo Trionfo, Giorgio Strehler, Luigi Squarzina e Virginio Puecher, prima di assumere – a partire dal 1975 – responsabilità di direzione realizzando spettacoli di cui è stato anche protagonista: come ha vissuto questo passaggio?
È stato un momento travagliato della mia vita perché dalla condizione di attore, con la sua responsabilità, prendevo su di me anche la responsabilità della regia: forse con quel po’ di incoscienza che hanno sempre i giovani. Ma ero talmente dentro quella “cosa” che non avevo paura. Soltanto una specie di eccitazione. E dal primo giorno di prove, dal primo giorno da regista, mi sono accorto che in fondo quella non era la mia collocazione sbagliata. Mi trovavo molto meglio a fare la regia che non l’attore. La regia è più facile, si occupa della”spettacolo”. L’attore si occupa di Teatro ed è molto più complicato.  Comunque ormai ero incastrato nell’essere attore e nell’essere regista. E oggi non potrei pensare al lavoro del teatrante, che sia il regista o l’attore, senza essere tutti e due. In linea di massima credo che in teatro io faccio l’attore. La regia è un “momento storico” che sta per essere superato. Anzi, a livello filosofico, considero il regista la mala essenza del teatro. Certo, ha avuto una grande importanza nel dopoguerra, perché stava cambiando il “modo” di esporre gli attori in scena. Si doveva mettere un po’ di ordine nell’anarchia che regnava sul palcoscenico. Senza attenzione, rigore, fedeltà e amore verso il “testo”. E senza troppi scrupoli di carattere culturale o soltanto storico. Così la Regia è stato il male necessario del Teatro. Oggi ha finito il suo compito. Se pensiamo che i punti più avanzati della Regia “di oggi” noi li vediamo in certi allestimenti di opere liriche, assolutamente sciocchi, dove niente ha più a che fare con ciò che racconta l’Opera in se stessa. Ma è soltanto l’apice della “volontà di potenza” della figura non essenziale del Teatro che è il regista. Intendiamoci, nell’ Opera Lirica è necessaria la figura di un coordinatore ma l’Opera non è la coordinazione di un regista.
 
 
Dopo lo Zio Vanja, cosa L’ha spinta a portare sulle scene Il nipote di Rameau, il più originale dialogo filosofico di Diderot?
Avendo fatto un testo “grosso” dal punto di vista economico era prudente allestirne uno più piccolo: Il nipote di Rameau era un dialogo filosofico di Diderot che io conoscevo e amavo molto, e così ho pensato di metterlo in scena. Ha avuto molto successo e il pubblico si divertiva parecchio. Questa era per me una grande soddisfazione. Quando gli attori sentono ridere il pubblico, pensano sempre che lo spettacolo funzioni. Magari invece non è così, ma la risata – essendo sonora rispetto alla partecipazione pura – è sempre gradita dall’attore che sta in scena.
 
 
Come nacque in Lei l’idea di allestire nel 1993 l’Orestea alfieriana?
L’idea non era mia: fu Pietro Carriglio – allora direttore del Teatro di Roma – a chiedermi di mettere in scena un opera di Alfieri. Carriglio voleva fare una “stagione” tutta incentrata su Alfieri. Io pensai all’Oreste e lo rappresentai con Rossella Falk, Massimo Foschi, Monica Guerritore e la meravigliosa scenografia di Arnaldo Pomodoro. Quest’ultima era veramente una scultura magnifica: chissà dov’è finita! Sarà a pezzi da qualche parte nei magazzini del Teatro di Roma…
 
 
Cosa L’ha spinta nel 1994 a mettere in scena – come autore, regista, scenografo e interprete – lo spettacolo Il duello, tratto da un racconto di Heinrich von Kleist?
Io amo molto Heinrich von Kleist: di lui ho messo in scena anche l’Anfitrione – forse il mio spettacolo migliore – e Il principe di Homburg, che ebbe un vero successo travolgente in teatro. Poi un produttore cinematografico che lo vide in Teatro volle farmelo fare anche al cinema: per quel film presi pure il Nastro d'argento come miglior regista esordiente, e l’anno dopo Paolo Valmarana mi chiese di scrivere per la RAI la sceneggiatura di un'altro film tratto da un racconto di Kleist. Io adattai Il duello: dopodiché Valmarana morì, e il progetto cinematografico saltò per aria. Intanto ero talmente dentro la faccenda che trasformai quella sceneggiatura in un testo teatrale: ne risultò uno spettacolo enorme che costò parecchio tra scenografie, trasporti e costumi, e difatti si persero molti soldi quando lo allestimmo. Però l’ho fatto comunque: era gigantesco, perché allora facevo spettacoli giganteschi. Troppo. 
 
 
Quale approccio ha avuto nel mettere in scena le opere di Dostoevskij Il sogno di un uomo ridicolo (1994) e Una donna mite (1999)?
Dostoevskij è probabilmente l’autore con cui mi trovo meglio: di lui ho fatto anche Memorie dal sottosuolo, che credo sia il migliore spettacolo in assoluto della mia vita di regista e di attore. Ho fatto anche altri adattamenti da opere di Dostoevskij, che però non ho mai avuto l’occasione di mettere in scena: Il sosia e L’eterno marito. Spettacoli che non sono mai riuscito a “montare”: non ho mai trovato l’altro protagonista che avesse voglia di fare la parte con me.
 
 
Come si è trovato a dirigere Franco Branciaroli e Umberto Orsini nell'Otello (1995) di Shakespeare?
L’Otello è stata la mia prima regia di Teatro è quando ho avuto l’occasione di farla un'altra volta, sono stato felice perché non c’erano solo ragioni di carattere artistico ma anche affettivo. Questa seconda edizione dell’Otello la ricordo con molta gioia perché fu uno spettacolo ben riuscito: il pubblico lo apprezzò molto, e – in questa versione – gli attori erano “giusti” nel loro ruolo. Così sono contento di averlo fatto: è uno spettacolo che andò molto bene.
 
 
Cosa L’ha invogliata nel 1996 a girare per il grande schermo La Lupa, dal racconto di Giovanni Verga con Monica Guerritore?
Mi avevano chiesto di fare un film: essendo siciliano, mi faceva quindi piacere passare un po’ di tempo in Sicilia e metterci dentro una certa visione della Lupa di Verga, un gigante assoluto nemmeno troppo ben compreso nel nostro Paese. La pellicola fu girata in pochissime settimane: ciò nonostante, è stata molto curata da un punto di vista storico in certi dettagli di carattere non “folcloristico” bensì, direi, antropologico quali la mietitura del grano, la spremitura delle olive e la spagliatura sull’aia. È una cosa realizzata in grande fretta e ansia, però la cura fu molta.
 
 
Qual è stata la Sua chiave di lettura per portare in scena Riccardo II (1996) alla XLVIII edizione del Festival Shakespeariano nell'ambito dell'Estate Teatrale Veronese?
Riccardo II è un testo veramente difficile: è sempre ostico per noi non anglofoni mettere in scena le Cronache quali Enrico V e lo stesso Riccardo II; già meno Riccardo III, perché il personaggio – che ovviamente ho interpretato – è talmente una maschera che diventa non un carattere storico bensì qualcosa di più profondo. Riccardo II è maggiormente complicato perché il tema che affronta è il tramonto della regalità e il sorgere dell’uomo: nel momento in cui finisce il re, comincia l’uomo. Questo giovane sovrano – sciocco, viziato e incapace, senza alcun talento regale – comincia a riflettersi  nello specchio dell’Essere man mano che la sua inconsistenza politica lo porta a perdere ogni “pezzetto” di nobiltà: una volta infranto lo specchio, l’immagine del Re viene definitivamente, storicamente, spezzata. Da quel momento Riccardo trova l’umanità, uno sguardo sul mondo puramente umano. È un testo molto complesso, è un opera filosofica di grande difficoltà di lettura per un pubblico che non può arrivare mai a cogliere gli aspetti in un mondo rovinato ormai dall’iPhone.
 
 
Dopo essere diventato nel 1997 direttore del Teatro Stabile di Torino, cosa L’ha spinta ad autodirigersi nel 2002 al fianco di Carlo Cecchi in La storia immortale, un dramma ispirato al racconto Capricci del destino di Karen Blixen?
Karen Blixen è una delle mie letture preferite: conosco quasi tutti i suoi racconti, e sono casualmente rincappato nella raccolta Capricci del destino. Io mi riconosco un grande talento di “adattatore” ma La storia immortale era veramente difficile da ridurre per il teatro: mi ci sono messo e – a lavoro concluso – ho visto che poteva funzionare. Ho chiamato il vecchio amico Carlo e gli ho chiesto se gli andava di passare  insieme qualche mese. Gliel’ho letta, lui ha accettato, e l’abbiamo fatta. Lo spettacolo è andato bene: è un ricordo molto bello per me, perché ho trascorso un periodo della mia vita insieme con un grande, singolarissimo artista – così profondo e unico – che è Carlo Cecchi.
 
 
Nel 2003 – dopo l’uscita de Il quaderno della spesa, di cui fu protagonista – Lei ha diretto L'avaro di Molière: non può proprio fare a meno di tornare al palcoscenico dopo queste occasionali prestazioni cinematografiche?
Il cinema non è un arte di attori. È, questo sì, l’arte del regista. L’arte dell’attore è soltanto il Teatro, che “mette in opera” il proprio “corpo” davanti ad altri uomini e che “nasce e muore” e non può mai riprodursi. La sua eternità consiste solo nella ripetizione possibile della stessa opera con altri corpi e voci: il cinema è la proiezione di immagini una vicino all’altra. È un “non essere”. È certo affascinante – come tutto ciò che non c’è – e magico. Ma non è la vita. Può vivere solo in me, come un racconto o un romanzo. Ma non è eterno come il romanzo. E poi, lo vediamo: il cinema è già morto da un pezzo: le sale sono sempre più piccole e vuote. Perché il cinema è un procedimento tecnico, e ogni téchne è destinata ad essere superata da un'altra téchne. Non si usa più la lancia in guerra: se oggi Achille dovesse combattere contro Ettore, non utilizzerebbe più la lancia ma gli sparerebbe. Ecco perché il cinema è morto com’è morta la lancia, o l’arco che nessun soldato ormai usa più. A me piace l’arco ma questo non cambia la storia. Il cinema ha purtroppo finito il suo ciclo, mentre il teatro non è mai cambiato: è sempre lo stesso da quando è nato, con la morte di Dioniso. Questo vuol dire che contiene in sé una forza che è radicata nella Uomo da prima degli uomini. Il pubblico non lo comprende del tutto, è troppo semplice e complesso. Ma quanti spettatori ha avuto il Teatro nella sua Storia. Gli spettatori del cinema non potranno mai raggiungere quel numero e quella vertigine. Potranno stupirsi e anche “trascendere”. Non saranno mai pura trascendenza.
 
 
Lei è poi tornato ad autodirigersi in Chi ha paura di Virginia Woolf? (2005) e in un altro testo shakespeariano come Misura per misura (2007): quali sono a Suo avviso le maggiori difficoltà per un attore di dirigere sé stesso?
Lo faccio da tantissimo tempo: quelle poche volte che mi capita di essere diretto per me è un gran riposo. Ma ormai la mia vita è questa. Il teatro è tutto difficile: non c’è una cosa più difficile di un'altra. Poi in genere – quando io sviluppo una regia dove recito anche – ho sempre un giovane attore che mi fa da “doppio” e lo dirigo al posto mio. Poi, alla fine della giornata, salgo in scena e rifaccio esattamente quello gli che avevo fatto eseguire durante le prove. È un po’ faticoso: però io sono molto pignolo e preciso. Quello che succede in palcoscenico non è mai frutto del caso o dell’improvvisazione: non sono uno di quei registi che dicono agli attori di improvvisare, facendo poi una cernita. I miei spettacoli sono degli orologi, per quanto magari non sempre perfettamente funzionanti. La regia oggi è molto malata. Ormai manca la tecnica vera, e senza tecnica non si può fare Arte. Anche se – pure con una grande tecnica – è comunque molto probabile che non si riesca lo stesso a fare Arte.
 
 
Ormai quasi ottantenne, che bilancio trae della Sua vita personale e professionale?
Ormai la mia vita sta per finire: questa è una grande seccatura perché non ho più il tempo di fare tanti spettacoli che ho in mente. Oggi poi il teatro è molto malato. Il Ministero, gli attori – che in genere sono persone vaghe e poco preparate – non capiscono il Teatro. I politici poi non ci vanno a Teatro. Non hanno quella cultura. Il Teatro è una “formazione”, una PAIDEIA. La nostra classe politica è quella che può essere storicamente. Si pensa che una buona amministrazione possa salvare il Teatro. Ma il teatro è un'altra cosa: non si amministra. Si vive. E, poi, si fa. O come spettatore o come attore. E basta.
 
 
Ha qualche progetto per il futuro?
Ne ho tanti: ancora quattro o cinque spettacoli forse riesco ancora a “portarli a casa“ dopodiché, se sarò ancora vivo, avrò un’età per cui non potrò fare più Teatro.
 
 

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