Giancarlo Governi: “La storia di un italiano chiamato Alberto Sordi”
A cura di Alessandro Ticozzi
Nell’attesa di vedere il docufilm che gli ha dedicato per il centenario della nascita che cade quest’anno, il celebre autore RAI rievoca la genesi del fortunato programma-manifesto del grande attore romano, che segnò la nascita della loro profonda amicizia.
Com’è nata in Alberto Sordi l’idea di realizzare per Raidue un programma televisivo quale Storia di un Italiano, e come fu Lei coinvolto nel progetto?
Invero non nasce come idea già così precisa e confezionata, bensì in un'altra maniera. Siamo nel 1977: da appena un anno c’è stata la riforma della RAI, e si sono formate due reti indipendenti fra di loro. Una è la Seconda Rete diretta da Massimo Fichera, un grande sperimentatore che cominciò a pensare in maniera innovativa: ad un certo punto la rete comprò un certo numero di film di Alberto Sordi, e aveva intenzione di mettere in piedi un ciclo – come si faceva allora – con delle presentazioni brevissime per ogni titolo. Allora Fichera interpellò Ivanka Veltroni, la mamma di Walter: una signora che lavorava per noi e che conosceva benissimo Sordi, perché era stato uno dei tanti allievi di suo marito quando era un importante dirigente radiotelevisivo. Vittorio gli aveva appunto fatto fare la trasmissione radiofonica Vi parla Alberto Sordi; che poi gli dette la popolarità, giacché il mezzo di larga diffusione – in un epoca in cui la televisione ancora non era arrivata – era la radio. Ivanka ci mise in contatto con Alberto, che disse: “Sì, però non voglio fare la solita cosa con un critico tipo Gian Luigi Rondi, come già in passato: bensì un lavoro diverso”. Fichera gli disse: “Vabbene, faccia quello che vuoLe”. “Vorrei realizzare una specie di documentarietto premesso ai vari film in cui racconto i miei trent’anni di cinema”. Allora Fichera mi chiese: “Vuoi andare a lavorare con Alberto Sordi?”. Io ero un grande ammiratore di Alberto Sordi: impazzivo per lui. Ero uno di quei ragazzi che erano cresciuti con le sue battute, e naturalmente accettai immediatamente. Fui anzi molto grato a Fichera: “Forse una scelta migliore non avresti potuto farla”, gli risposi. Sordi aveva una collezione di tutti i suoi film ancora in pellicola 35 mai proiettati, probabilmente tenuti dentro a casse di alluminio conservate benissimo in una specie di casamatta nel suo giardino. Ogni giorno noi ci vedevamo alla Safa Palatino, un importante stabilimento cinematografico vicino a casa sua: guardavamo le sue opere in saletta di proiezione, pur se ancora non sapevamo bene cosa fare. Più film vedevamo e più tramontava l’idea di fare un documentario di presentazione: ci rendevamo conto che all’interno dei suoi titoli c’era uno specie di fil rouge rappresentato da questo italiano che entrava ed usciva tra le varie citazioni della storia d’Italia. L’idea era quella di estrapolare tale filo rosso per tirarlo fuori e metterlo in sequenza, punteggiando il tempo in cui siffatto personaggio operava per marcare la morfologia di quest’individuo che si collegava alla storia d’Italia. Ciò naturalmente ci portava via tempo, e non ci rendevamo conto quanto ce ne sarebbe voluto ancora e che tipo di programma sarebbe uscito fuori: ci fu la pazienza e la comprensione del nostro direttore, il quale naturalmente ci proteggeva perché si era reso conto che stavamo per fare qualcosa di molto diverso e importante. Però ovviamente la RAI aveva delle regole anche e soprattutto amministrative: non si poteva tenere in piedi una struttura così senza sapere a che cosa avrebbe portato, e oggi c’avrebbero mandati tutti a casa a calci nel sedere. Siamo così riusciti a produrre otto puntate di Storia di un Italiano: poi abbiamo fatto la seconda e terza serie – mentre alla quarta non vi ho preso parte, in quanto stava diventando un qualcosa che non aveva più senso; ma anche perché poi mi sono dedicato pure ad altro e non potevo continuare a seguirla. Quando ci veniva in mente un titolo, io me l’appuntavo in un quadernetto: ne avevamo tirati fuori una ventina, finché poi un giorno Alberto chiamò Sergio Amidei. Il grande sceneggiatore di Roma città aperta – tra i padri del cinema italiano moderno – è stato quindi il primo degli estranei a vedere il programma: mi ricordo che questo signore anziano stette più di sei ore a vedersi passare questa trasmissione, facendo soltanto un paio di interruzioni perché doveva andare al bagno. Alla fine gli piacque molto, e Alberto gli chiese: “Senti, ma tu come lo intitoleresti?”. “Ma come? Non l’avete ancora capito? Storia di un Italiano!”. La cosa più semplice uscì fuori liberamente: a noi venivano solo titoli complicati.
Quindi è così che Lei e Sordi avete impostato la vostra collaborazione durante la lavorazione del programma?
Sì, ma poi oramai questo andava avanti per conto suo: le serie importanti furono la prima di sei puntate e la seconda di otto – mentre nella terza secondo me c’era già un abbassamento del tono e del ritmo, in quanto avevamo già scelte le cose migliori per le prime due. Il problema era quello di usare con Alberto il metodo maieutico, facendo in maniera che le intuizioni venissero a lui: se gli dicevi una tua idea, lui capiva che appunto era tua e ti diceva subito che non andava bene, pur se dopo qualche giorno – o addirittura ora – te la riproponeva come sua. Era un personaggio così, ma di grandissimo spessore: davvero un gigante. Io poi ero giovane, quindi per diplomazia capivo tutto: Alberto Sordi era uno che parlava con Age e Scarpelli, Mario Monicelli e Dino De Laurentiis; persino Ettore Scola faceva un passo indietro quando stava davanti a lui. Praticamente ho visto la storia del cinema italiano che mi passava davanti quotidianamente: credo Lei immagini cosa possa provare un ragazzo. Per me è stato come il tredici al Totocalcio: io non ho mai vinto niente, però questa era stata una grande vittoria. Ogni tanto poi Sordi si assentava per girare qualche film: io gli stavo vicino anche sul set, vedendo come lo commentavano all’opera. Essendo dotato di un registratorino, io ho pure registrato alcune ore di conversazione con lui: queste avvenivano soprattutto quando andavamo a mangiare alla mensa della Safa Palatino, dove infatti lavoravamo. Di fronte ad una tavola imbandita, Alberto diventava ancora più loquace: magari si versava un bicchiere di vino e quindi ti raccontava tutto, diventando un personaggio.
Quelle registrazioni le ha poi recuperate per il Suo volume Alberto Sordi, un italiano come noi, esatto?
Quello uscì nello stesso 1979, dopodiché l’ho rivisto e ampliato una trentina di anni dopo: Sordi lo considerava un libro di sue memorie, come fosse stato anche lui autore di quel libro.
Tornando alla Storia di un Italiano, ricorda come reagì Alberto Sordi all’epoca del suo enorme successo di audience?
Avendo una grande considerazione di sé, non s’è meravigliato più di tanto: era già l’Alberto Sordi che aveva fatto i suoi film più importanti. Secondo me la sua carriera raggiunge l’apice con Un borghese piccolo piccolo,dopodiché è tutto a scendere: non riconosce più quell’Italia che voleva continuare a raccontare. L’Italia della crisi iniziata negli anni Ottanta per lui diventa un po’ impalpabile, mentre negli anni Novanta non racconta più niente: Nestore – L’ultima corsa è l’ultimo suo film “vero”; una storia sulla vecchiaia e sulla morte del cavallo, e insieme del protagonista. Incontri proibiti invece non lo prendo neanche in considerazione: oramai non aveva più il senso del ritmo e del cinema.
Alberto Sordi intendeva portare la Storia di un Italiano nelle scuole: come mai poi il progetto si arenò?
Il Ministro della Pubblica Istruzione Luigi Berlinguer gli disse: “Ma questa è una cosa straordinaria! Perché non ne realizza tante cassette? Io gliele compro e le distribuiamo nelle scuole”. Tuttavia il suo mandato durò poco: sotto il Governo Berlusconi, la Moratti gli rinnovò l’invito e lui si mise a lavorare su questa cosa. I produttori gli rispondevano: “Alberto, fa tutto quello che vuoi”. Quando lui è morto, hanno invece chiesto delle cifre spaventose: tale progetto è quindi rimasto lì, nonostante Sordi avesse rivisto il montaggio.
Lei pensa che un domani possa vedere la luce?
Non credo proprio: finché non si farà una legge sul cinema sensata per siffatte operazioni – che poi non possono essere considerate commerciali, in quanto puramente didattico-culturali – , i detentori dei diritti possono chiedere delle cifre assurde ad libitum senza alcuna regola, e conseguentemente queste cose non usciranno mai più.
Cosa Le piace ricordare di più di Alberto Sordi come uomo e come artista?
Essendo un amico di famiglia, io l’ho frequentato molto; quando coloro che sapevano di questa mia frequentazione mi domandavano com’era Alberto Sordi, io rispondevo: “Come lo vedete al cinema”. Non c’è soluzione di continuità: lui era un personaggio tanto in pubblico quanto nel privato. Poi avrà avuto anche lui i suoi momenti di tristezza e sconforto, come tutti gli esseri umani: però non lo dava mai a vedere. Non era mai arrabbiato, bensì sempre allegro: Alberto trovava sempre il lato satirico dei personaggi, sempre sceneggiando in maniera diversa certi episodi che raccontava. Ricordo una sera con Monica Vitti, Gigi Proietti, Massimo Troisi e Lello Arena: quando attaccava lui, tutti in silenzio ad ascoltare e a ridere. Era il maestro di tutto, e un po’ lo è stato anche di vita oltre che di spettacolo. Quando Francesco Rutelli gli fece fare il sindaco per un giorno per i suoi ottant’anni, credo sia stato il momento più felice della sua vita: la Roma che lui amava tantissimo lo celebrava, e lui stesso omaggiava la sua città.