Glauco Mauri: “L’uomo e la sua fatica di vivere come missione del mio teatro”

Glauco Mauri: “L’uomo e la sua fatica di vivere come missione del mio teatro”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
 
Il grande attore pesarese ripercorre i passaggi più importanti della sua carriera scenica, saltuariamente intercalata da rarissime apparizioni cinematografiche.
 
 
Specie nei Teatri Stabili e nella Compagnia dei Quattro (con Valeria Moriconi primattrice), Lei ha sostenuto un repertorio di grande ampiezza e significato, sia classico che moderno e contemporaneo (Shakespeare, Dostoevskij, Brecht, Ionesco, Beckett, ecc.): qual è la costanze della Sua ricerca scenica in tal senso?
 
Quando ho potuto scegliere – e nella Compagnia dei Quattro non si poteva farlo – , ho sempre sostenuto che l’importante è mettere al centro l’uomo e la sua fatica del vivere.
 
 
Cosa L’ha spinta a mettersi dal 1981 alla testa di una Sua compagnia, con la quale Lei ha affrontato altri testi di grande impegno artistico, assumendosi spesso anche responsabilità registiche?
 
Mi ero stancato di essere vincolato ai teatri stabili, in quanto con loro non potevo mai decidere cosa mi piacesse fare: dopo essere stato al Teatro Stabile di Torino in sostituzione del caro Gastone Moschin – quando mi hanno detto che non ero più utile dall’anno futuro – , mi sono accorto che dovevo correre da solo. Per fortuna nelle accademie ho trovato Roberto Sturno, un neodiplomato che poi m’ha aiutato: l’anno prossimo saranno quarant’anni che noi due sosteniamo la compagnia. Ciò rappresenta la gioia e la volontà di sentirmi libero nelle mie scelte, senza sottostare ai consigli d’amministrazione dei teatri stabili.
 
 
Nelle poche apparizioni sul grande schermo Lei è ricordato soprattutto come protagonista di La Cina è vicina (1967) di Marco Bellocchio: cosa rammenta della Sua esperienza su quel set?
 
Era praticamente la prima volta che affrontavo la macchina da presa: al di là della meravigliosa collaborazione con Marco Bellocchio, tale set mi ha fatto capire che questa non aveva alcun effetto appassionante su di me. Mi emozionava più il pubblico: tant’è vero che ho fatto pochissimo cinema – sia perché non mi hanno richiesto spesso che perché ho sempre preferito fare teatro, pur dando questo meno notorietà.
 
 
Cosa L’ha indotta nel 1990 a passare dall’essere protagonista di una rara edizione del Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare al proporre Dal silenzio al silenzio, uno spettacolo beckettiano che raccoglie alcuni atti unici quali L’ultimo nastro di Krapp, Improvviso nell’Ohio, Respiro, Frammento di teatro 1 e Atto senza parole 1?
 
Primariamente ho sempre cercato di variare, non fossilizzandomi in un modo unico di fare teatro: dopodiché c’è stata la scoperta di Beckett, che considero – insieme a Shakespeare e Dostoevskij – l’autore che più ha influito sulla mia formazione non solo professionale ma anche umana. Dal silenzio al silenzio era il titolo di un documentario che noi abbiamo avuto la gioia e la possibilità di sottoporre in italiano ad un teatro: l’unico che è stato approvato dallo stesso drammaturgo. In questo documentario ho scoperto una cosa che poi m’ha guidato nella scoperta di Beckett: il commento musicale – che utilizzava brani di Schubert e Chopin – suscitava in me una tenerezza infinita, convalidandomi la convinzione che nel suo teatro – che passa dalla farsa che diventa tragedia alla tragedia che diventa farsa – c’è in fondo anche una grande pietà per l’essere umano.
 
 
Come ha vissuto nel 1991 Tutto per bene, il Suo primo impegno con il teatro di Luigi Pirandello?
 
La considero una delle mie interpretazioni più belle e riuscite: Pirandello è uno di quegli autori che ho recitato poco, ma Tutto per bene rappresenta uno dei ricordi di apice che ho avuto nella maturità di carriera.
 
 
Cosa L’ha convinta ad interpretare Oblomov (1992) nella riduzione teatrale di Furio Bordon dal celeberrimo romanzo di Ivan Goncarov?
 
Perché amavo quel romanzo alla follia, oltre ad essere il preferito di Dostoevskij: lo considero bellissimo perché è uno scandaglio gettato dentro una vena dell’uomo. Allora non ero attento a questa cosa: ne sono stato felice perché è uno di quei romanzi che mi sono rimasti impressi dentro.
 
 
Cosa L’ha spinta nello stesso anno a portare in scena con la Sua compagnia Riccardo II, uno dei drammi storici di William Shakespeare meno rappresentati in Italia?
 
Innanzitutto perché ho avuto l’onore e la felicità di conoscere il grande poeta Mario Luzi, che è venuto al Teatro Alfieri di Torino in quanto voleva che io assistessi con lui alla traduzione: capiva infatti che un attore può aiutare il traduttore, sia nel senso tecnico-poetico che in quello psicologico. È un testo che io ho amato moltissimo: pur essendo poco rappresentato, contiene alcune tra le pagine più belle del teatro shakespeariano.
 
 
Gli ultimi anni di vita di Ludwig van Beethoven, raccontati dallo stesso musicista nei suoi quaderni, sono il soggetto dello spettacolo da Lei proposto nel 1994 come regista e unico interprete: cosa L’ha persuasa a decidere di affrontare una prova così impegnativa?
 
La considero una delle cose più care della mia vita: tutto è nato perché – andando in giro per i vicoli e le librerie – un giorno mi sono caduti sotto gli occhi i quaderni di conversazione di Beethoven. In quei giorni stavo interpretando L’ultimo nastro di Krapp, la storia di un vecchio che aveva registrato delle bobine contenenti la sua esistenza. Beethoven aveva cucito da solo i propri quaderni: quand’è morto non li hanno toccati, rapinando solo i suoi spartiti. Beethoven se li è portati dietro conservandoli: erano più di centocinquanta, ma credo ne siano rimasti pochissimi. Nei quaderni non si trova nemmeno una nota musicale: erano basati esclusivamente sul privato di questo grande genio. Dalla sua vita intima e dal mistero di certe frasi è risultata l’immensa personalità di Beethoven: quindi rimane forse la mia esperienza più importante.
 
 
Nel 1995 Lei ha recitato nella shakespeariana La tempesta: cosa La induce a interpretare così spesso opere del Bardo immortale?
 
Come Le ho detto prima, Shakespeare – insieme a Dostoevskij e Beckett – è colui che possiede la tavolozza con dentro tutti i colori dell’animo umano: mi ha aiutato a capire Riccardo III come la poesia di Giulietta e Romeo e la malinconica saggezza di Prospero. Ho interpretato moltissime sue opere: è sempre un meraviglioso campo di battaglia.
 
 
Nel 2005 Lei ha curato la regia di Delitto e castigo: come può essere recepito il messaggio di questa tragedia dostoevskiana a Suo avviso?
 
La cosa che più mi ha affascinato in Delitto e castigo è il rapporto tra Raskol'nikov e il giudice istruttore Porfirij: quest’ultimo – nella sua apparente ironicità – porta invece il protagonista alla confessione. Lui sa benissimo che è colpevole, ma lo aiuta a confessare: in tutto questo è presente – in modo chiaro e poetico – il pensiero di Dostoevskij secondo cui l’uomo può comprendere l’uomo. Come Shakespeare, Dostoevskij non giudica mai: cerca sempre di comprendere, e io credo che questa sia la cosa più importante per i rapporti dell’uomo – non solo con la poesia, ma anche con sé stesso.
 
 
Ormai novantenne, che bilancio trae della Sua vita privata e professionale?
 
Nella mia vita privata ho la gioia di sentirmi circondato da affetti veri, che sono i miei nipoti non di sangue ma d’amore: è davvero una cosa meravigliosa. Pur avendo avuto anche bellissime storie d’amore, per me è stata poi più importante l’amicizia. Come uomo mi sento pertanto appagato: dal punto di vista artistico sono insoddisfatto, perché mi sono sempre sentito al di sotto dei personaggi che ho interpretato. Non voglio fare il finto umile: so benissimo di possedere delle qualità recitative e una spiccata sensibilità nel comprendere i testi. Data l’età, sento gli anni che passano: ma anche la ricchezza dell’esistenza che ho vissuto.
 
 
Ha qualche progetto per il futuro?
 
Sono tanti anni che firmo anche regie: pur mettendoci tutta la buona volontà, la polvere della vita a volte si deposita inesorabilmente sulla tua volontà di fare le cose al massimo della poesia. Quindi c’è bisogno di un aria fresca che ti dia nuove energie: pertanto io e Roberto adesso puntiamo molto su giovani registi di talento per i nostri prossimi spettacoli.
 

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