Il sommerso e il salvato - Recensione di "Comandante"
È il 1940. Sono gli anni duri della Seconda Guerra Mondiale; lo scoppio effettivo si è consumato nel settembre dell’anno prima, quando il bellicoso Terzo Reich ha attaccato la Polonia, violando le effimere rassicurazioni sbandierate da Neville Chamberlain. La guerra non è però, per il momento, entrata nel vivo dei combattimenti e delle strategie militari: la Germania non ha ancora violato la neutralità di Belgio e Olanda e l’Italia governata dai Fascisti non è ancora entrata in guerra. La guerra c’è, è stata dichiarata, ma si attende, come sulla scacchiera, la mossa del nemico, ancora memori degli orrori della Grande Guerra. In questo clima di rinnovato terrore si svolgono le vicende che riguardano il nuovo film campione di incassi nelle sale, per la regia di Edoardo de Angelis, “Comandante”.
Carl Schmitt in Terra e mare distingueva nettamente le due categorie di superficie su cui l’uomo può passare la propria esistenza, concependo una sorta di spirito della storia che di volta in volta si è incarnato in potenze marine o terrestri, con caratteristiche sempre, tutto sommato, simili, come se la terra e il mare condizionassero l’uomo proprio nella sua essenza, nel suo essere più autentico. Il comandante Todaro ha dimostrato l’esatto contrario; il personaggio interpretato da Favino – con accenti anche abbastanza esornativi, come il marcato dialetto veneto – si è reso protagonista di una vicenda commovente per la sua umanità, se inquadrata, come forse sembra necessario fare, nel contesto della guerra.
Quello che però va sottolineato è che la guerra non compare nel film; di fatto, questo dramma, non è un dramma di guerra. Non compare il tradizionale armamentario statalista dei grandi film sulle guerre, in cui cioè i singoli uomini non sono altro che meri rappresentanti, anche dal punto di vista ideologico, di una delle parti in gioco. Non è un film di guerra ed è questo, forse, che può renderlo di fatto un kolossal, o meglio, un classico: se classico è tutto ciò che tocca le più profonde corde del nostro animo, proprio perché non è un film di guerra, questo è un film che aspira al classico.
Richiama il classico anche perché richiama l’Odissea. Non l’Odissea da romanzo, l’Odissea da campioni d’astuzia e di coraggio, ma l’Odissea del viaggio che Odisseo riferisce ai Feaci, quella parte del poema in cui ad ogni tappa, alacremente ricordata dai liceali l’una di seguito all’altra, è contrassegnata dalla morte di uno o più compagni, di uno o più eroi, di uno o più esseri umani. Persino il poeta, che si era reso conto della serialità di queste morti, sentiva il bisogno di chiosare queste serie di lutti tramite pochi versi formulari in cui sottolineava la comunanza del lutto da parte di coloro che rimangono.
Quello realizzato da de Angelis è un film su coloro che rimangono, per far sì che tutti e sempre rimangano, un richiamo all’umanità. Il gesto centrale della trama – il salvataggio di quelli che, pur non dichiaratamente, erano i nemici belgi sconfitti e affondati mentre nascostamente collaboravano con gli Alleati all’ombra della professata neutralità – non è un atto di ribellione di Todaro o della sua ciurma agli ordini di Roma, è bensì un atto di conformità al comando del mare, al principio per cui la differenza fra un naufrago e comandante la fanno solo pochi pezzi di metallo messi insieme a formare un sottomarino. Un uomo non può non riconoscere un altro uomo in mare, non può rallegrarsi della visione della rovina altrui, perché sa perfettamente quanto labile possa essere la differenza fra la vita e la morte, in un ambiente così ostile alla vita umana come il mare aperto.
A cura di Matteo Santoni Basili