Il tempo e il mondo di Vittorio De Seta raccontati da Salvo Cuccia

Il tempo e il mondo di Vittorio De Seta raccontati da Salvo Cuccia

a cura di Alessandro Ticozzi
 
Il regista palermitano ricostruisce dettagliatamente la carriera del suo illustre college concittadino, cui dedicò un documentario che suscitò l’attenzione del grande Martin Scorsese.
 
Già eccellente documentarista del mondo del lavoro in Sicilia e Sardegna, cosa portò successivamente Vittorio a firmare la regia di Banditi a Orgosolo (1961), riprendendo così la poetica neorealista?
 
 
I suoi capolavori degli anni ’50 – i dieci documentari girati in Sicilia, Calabria e Sardegna – segnarono in maniera indelebile la storia del documentario. De Seta è considerato soprattutto per questi primi suoi lavori il padre del documentario in Italia. Per i documentaristi essi sono come le tavole dei Dieci Comandamenti. Donarono alla forma e alla sostanza del documentario una luce nuova e un modo inedito e originale con l’uso del colore, il formato widescreen in 9 su 10, l’assenza del commento parlato che lascia il racconto ai suoni e alle immagini. Allora i documentari erano tutti in bianco e nero, in maggior parte in formato 4:3 e con l’utilizzo della voce fuori campo. De Seta amava paragonare questo suo modo di fare cinema alla rivoluzione copernicana, con la troupe che gira attorno agli uomini e alla scena.
E in effetti il passaggio dai documentari al suo primo film di finzione avvenne in maniera naturale visto che era stato in Sardegna a girare i  due documentari Un giorno in Barbagia e Pastori a Orgosolo. Quest’ultimo divenne involontariamente una sorta di preludio al film. De Seta girò Banditi a Orgosolo con le stesse persone di Orgosolo che lo avevano aiutato ed erano apparsi in parte nel documentario e negli stessi luoghi. Il film fu una fatica immensa, girato e rigirato (in quanto ci furono pure problemi con l’integrità della pellicola ad un certo punto), dovendosi muovere su quelle montagne portando le attrezzature in spalla. Quando girai a Orgosolo una parte del documentario Détour De Seta con la troupe andai su Supramonte e in alcuni dei luoghi in cui De Seta aveva girato il film e dalla cima di una montagna osservammo quel paesaggio costellato di rocce e quasi senza un albero: era come stare dentro al suo film. De Seta affrontò con grande determinazione questo viaggio insieme ai pastori di Orgosolo che diventarono gli attori del film perché sapeva ed era cosciente di questo suo stato di grazia, aveva un progetto. Il film – come quasi tutta la sua produzione – lo scrisse insieme a sua moglie Vera Gherarducci, alla quale mai si è dato il giusto merito nell’ambito dell’opera di De Seta. Vera ha firmato tutte le sceneggiature insieme a lui fino alla sua prematura morta avvenuta nel 1979. Vera era la sua metà nella vita e nel cinema. E per De Seta fu un duro colpo sia per la sua vita che per la sua avventura cinematografica. Riuscì a girare nel 1981 tre puntate per RAI dal titolo Hong Kong città di profughi e poi calò il silenzio fino al 1993 quando realizzò In Calabria e solo nel 2004 riuscì a fare il suo ultimo film Lettere dal Sahara,in cui si mette per l’ennesima volta dalla parte dei deboli che siano uomini o popoli.
A Banditi a Orgosolo fu imposto il doppiaggio, cosa di cui Vittorio avrebbe fatto a meno. Il film come sappiamo vinse a Venezia come miglior opera prima. Il bianco e nero aveva dato alla finzione la giusta distanza dalla realtà per divenire finzione che finzione non era. Il film parla di un povero pastore che viene accusato ingiustamente di aver rubato delle pecore e a quel punto diviene anche lui per necessità un bandito. Per incoraggiare i suo attori/non attori Vittorio diceva loro prima di girare: “Fate finta che non ci siamo”. Era questa la sua filosofia: al centro non sta la macchina da presa ma gli uomini, che devono muoversi ed esprimersi liberamente.
I documentari degli anni ’50 rappresentano la grande intuizione di De Seta che mette in scena quel mondo che era praticamente immutato da 5000 anni che da lì a poco sarebbe cambiato. Mette in scena quella che il grande geografo Eugenio Turri (che non a caso feci incontrare con De Seta nel mio documentario) nel suo libro Semiologia del paesaggio italiano definì La Grande Trasformazione, il passaggio dalla società arcaica al mondo moderno e meccanizzato.
Oggi secondo me c’è da esplorare il nuovo passaggio epocale di grande impatto, il passaggio dalla materia alla memoria fluida, dal mondo reale al mondo digitale.
 
 
Quale fu invece il suo approccio al cinema di finzione con Un uomo a metà (1966) e L'invitata (1969)?
 
 
Vittorio De Seta amava raccontare di un giorno in cui si trovava in via del biscione a Roma insieme a Federico Fellini e gli parlò del suo analista che poi gli presentò. De Seta aveva realizzato il primo film psicoanalitico italiano, Un uomo a metà, Fellini girò subito dopo il suo Otto e mezzo. De Seta venne attaccato dal Partito Comunista e dai cattolici e il film fu oggetto di pesanti critiche. I comunisti gli rimproveravano di essersi occupato della crisi di un uomo e del suo universo interiore e invece in quel momento storico bisognava occuparsi della lotta di classe. Gli unici che lo sostennero e lo difesero furono Pasolini e Moravia. Dopo Banditi a Orgosolo, nessuno si aspettava un film sulla condizione interiore di un uomo e sulla psicoanalisi che racconta questa crisi in una atmosfera rarefatta e in un bianco e nero strabiliante. Lo scrisse insieme a Vera Gherarducci – che firmò anche la scenografia – e a Fabio Carpi. Jacques Perrin vinse la coppa Volpi a Venezia come miglior attore. De Seta è un innovatore e lo dimostra soprattutto con questo suo secondo film, in cui sperimenta un linguaggio cinematografico inedito nel cinema italiano.
De L’Invitata parlava sempre con distacco: fu un film che non gli piacque. Lui era abituato a produrre i suoi film e non si ritrovava a stare in una produzione che non era la sua. Aveva un concetto di libertà espressiva assoluta. Il suo interesse si concentrò su una sceneggiatura per un film su San Paolo, mai realizzato, pur avendo scritto migliaia di pagine e avendo fatto sopralluoghi e averci lavorato per molto tempo.
 
 
Cosa invogliò Vittorio a dirigere per la televisione il Diario di un maestro (1973)?
 
 
Con Diario di un maestro Vittorio tornò al suo amore – il cinema del reale – ad un quasi documentario in cui un attore interagiva con i ragazzini della scuola del Tiburtino III. Scelse quelli più al limite, quelli che non andavano a scuola se non raramente, si volle confrontare in prima persona con gli ultimi e i più problematici e la realtà durissima della periferia romana. La sua avventura continuava con la collaborazione di Luciano Tovoli che ne firmò la fotografia. Il soggetto è tratto dal libro autobiografico Un anno a Pietralata di Albino Bernardini. Due anni dopo l'uscita in tv, il film raggiunse le sale ridotto a 135 minuti. Il film a puntate ebbe un enorme successo e innestò un dibattito a livello nazionale sulla scuola e sui metodi di insegnamento, mise in dubbio ciò che fino a quel momento la scuola era per mostrare una nuova modalità di insegnamento e comunque per aprire la strada a un rinnovamento e a un ripensamento sull’insegnamento, sull’organizzazione e sulla missione etica e morale della scuola. Nel mio documentario Détour De Seta Tovoli racconta dell’estrema libertà con cui il film fu concepito e girato. Fu un esperimento senza precedenti che rimane impresso nella storia della RAI anche come un successo di pubblico.
 
 
Nel 1993 con In Calabria quale ritratto intese dare Vittorio della gente che abita tale regione?
 
 
Con In Calabria De Seta chiude idealmente un ciclo. Nel 1979 aveva realizzato La Sicilia rivisitata, un ritorno in Sicilia a distanza di 25 anni dal suo primo documentario Lu tempo di li pisci spata e nel 1993 torna in Calabria in senso cinematografico, visto che lui abitava da molti anni nella sua tenuta di Sellia Marina in provincia di Catanzaro dove produceva olio e continuava a scrivere. Curiosamente I Dimenticati – l’ultimo dei documentari degli anni ’50, girato in Calabria – è l’unico dei dieci con un commento parlato, e anche In Calabria è raccontato allo stesso modo. Un film prodotto dalla RAI, ma mandato in onda raramente e in orari impossibili. Si potrebbe scrivere moltissimo sulla trasformazione del linguaggio poetico di De Seta nell’arco della sua vita, ma la sua linea rimane sempre la stessa: stare dalla parte dei più deboli e dei “dimenticati”. Raccontare il mancato sviluppo del sud, uno sviluppo senza progresso. Raccontare il sud dell’Italia e poi il sud del mondo con il suo ultimo film Lettere dal Sahara. In Calabria non ha la potenza poetica dei cortometraggi degli anni ’50 ma intende essere un documento della situazione in quel momento storico, un documento di approfondimento sociale, economico e politico.
 
 
Dopo un lungo silenzio, cosa spinse Vittorio a tornare nel 2004 al cinema con Lettere dal Sahara, film che narra la tragica esperienza di un giovane senegalese?
 
 
Vittorio fu spinto dalla linea che congiunge – tranne L’Invitata per ovvi motivi progettuali e produttivi – tutti i suoi lavori: stare dalla parte dei più deboli e degli oppressi, e in questo caso addirittura di popolazioni subalterne (come dice nel mio documentario Goffredo Fofi). De Seta ha voluto raccontare la storia di un immigrato africano dal di dentro, dal suo punto di vista e non dal punto di vista generico con cui vengono visti gli immigrati che ai nostri occhi di “occidentali” appaiono come numeri sia da vivi che da morti in mare o in viaggio. De Seta si propone di raccontare la storia di un maestro che viene in Italia e decide infine di tornare nel suo paese. Racconta questa storia cercando di ridare la più grande dignità a un “immigrato”. E non a caso il protagonista è un maestro: perché un maestro è un maestro sia che venga raccontato in Africa, sia che sia stato raccontato nella periferia romana. Ricordo l’incanto di De Seta nel girare il film con delle piccole telecamere digitali. È stato sempre un innovatore e uno sperimentatore, per cui accolse l’idea di realizzare il film in dvcam e di montarlo in Avid con grande entusiasmo. Trovava che era molto più semplice e immediato che lavorare in pellicola, e si era subito impadronito del mezzo.
Nel suo viaggio fu ben assistito a Lampedusa da Peppino Del Volgo – che successivamente da semplice abitante dell’isola si trasformò in aiuto regista di Crialese per Respiro e Terraferma, girati a Lampedusa e a Linosa, e poi ha continuato a lavorare nel cinema – e dalla montatrice Marzia Mete, che è stata preziosissima per Vittorio con il suo modo di procedere e con la cura che ha avuto per lui, anche psicologica. Probabilmente  Marzia è stata la persona più vicina a lui nei momenti più difficili della realizzazione del film che già aveva avuto non pochi problemi nella fase delle riprese e che si era bloccato produttivamente durante il montaggio. De Seta era entrato in rotta di collisione con la sua produttrice e addirittura parlò con la mia produttrice e compagna di allora, Eleonora Cordaro, per prendere in mano la produzione del film. Le cosa andarono diversamente. Nel frattempo infatti avevo girato e realizzato Détour De Seta:Martin Scorsese lo vide, e nel 2005 decise di fare un omaggio al cinema di Vittorio De Seta a partire dal mio documentario al Tribeca Film Festival e al Full Frame Documentary Film festival di cui è honorary chair of the advisory board e corse in aiuto di De Seta scrivendo una lettera aperta che fu pubblicata dal Corriere della Sera, lettera che  contribuì non poco al salvataggio del film che l’anno dopo andò a Venezia. E dunque sono orgoglioso di affermare che Détour De Seta è stato non solo un documentario sull’opera e la figura di Vittorio De Seta, ma è stato addirittura determinante per la sua opera e la realizzazione del suo ultimo film. Poco prima della presentazione dell’omaggio a De Seta al Full Frame, girai nel backstage del cinema con una piccola telecamera il primo incontro tra Scorsese e  De Seta. Si tratta di alcuni minuti inediti ad oggi di una discussione in generale sul cinema indipendente e anche su John Cassavetes, che De Seta aveva conosciuto a New York quando era andato a presentare Banditi a Orgosolo.
 
 
Come hai vissuto la coeva esperienza di dedicargli il documentario Détour De Seta?
 
 
Se non avessi ricevuto una telefonata dal compianto Vincent Schiavelli – carissimo amico e attore hollywoodiano – una sera a Roma mentre stavo per finire il montaggio del documentario e non avessi per merito suo incontrato Raffaele Donato, uno stretto collaboratore di Scorsese, tutto questo non sarebbe accaduto. L’incontro con Raffaele e Vincent fu piacevolissimo e parlammo a lungo di cinema. Insieme a Scorsese, Raffaele aveva scritto la sceneggiatura del documentario Il mio viaggio in Italia. Parlammo di Détour De Seta e mi chiese di inviarglielo al più presto. Quando lo salutammo Vincent mi disse di farglielo avere subito perché il signore con cui parlavamo era nientemeno che l’uomo di fiducia di Scorsese! Un mese dopo ricevetti una telefonata da Vincent che, raggiante, mi diede il numero di Raffaele, che mi disse che Scorsese aveva visto il mio documentario e aveva deciso di fare un omaggio a De Seta negli USA. Ero sconvolto dalla felicità! Richiamai Vincent, che mi disse con grande gioia: “Bravo! Te lo meriti perché sei bravo!”. Piansi e qualche mese dopo io e Eleonora partimmo insieme a Vittorio e a sua nipote Vera alla volta di New York.
Fare un documentario su De Seta non si era rivelata una cosa facile. Vittorio non ne voleva sapere di farlo: come sappiamo era un vero orso, ma alla fine accettò. La cosa curiosa era che il documentario fu finito nel 2004 esattamente a 50 anni dal primo documentario di De Seta e a 25 anni dal suo ritorno in Sicilia. Decisi di girare negli stessi luoghi e a volte, quando fu possible, con le stesse persone che erano apparse nei documentari e nel suo primo film, in Sicilia e in Sardegna; mentre il suo racconto personale lo girai alla scuola del Tiburtino III dove lui aveva girato Diario di un maestro. Dunque in quel momento girai io il mio diario di un maestro: questa volta del cinema! A Ganzirri, sullo Stretto di Messina, incontrai i pescatori di pesce spada che lui aveva conosciuto 50 anni prima e girammo sulle loro spadare. Grazie a un montaggio alternato, si susseguirono due colpi di fiocina a distanza di 50 e 25 anni. E poi con la troupe andammo a Orgosolo e fu una esperienza indimenticabile, soprattutto a Supramonte. Conobbi Mario Battasi e gli altri protagonisti di Banditi a Orgosolo e conobbi anche le donne di Orgosolo, donne forti che mi raccontarono quale ruolo importante aveva avuto Vera Gherarducci, la moglie di Vittorio, nel loro essere accolti e accettati dalla comunità del paese. Il legame si era stretto prima tra Vera e le donne e poi tra Vittorio e gli uomini: questo era avvenuto durante i due documentari Un giorno in Barbagia e Pastori a Orgosolo,per poi trovare la piena intesa quando fu girato Banditi a Orgosolo.
Il montaggio di Détour De Seta che realizzai insieme a Benni Atria fu un vero momento creativo. Lavorammo sui repertori e sul girato del documentario come un corpus unico, intessendo un racconto diacronico tra suoni e immagini, avendo a disposizione l’intero archivio di Vittorio.
 
 
Da documentarista palermitano quale tu sei come lui, come vivi l’importanza di raccogliere la lezione di Vittorio De Seta?
 
De Seta è considerato il padre del documentario italiano e di quella “poesia del reale” che lui ha praticamente inventato. Il suo linguaggio nuovo, la profondità del suo sguardo e della sua forza intellettuale hanno rappresentato e rappresentano qualcosa di molto importante per la mia generazione di documentaristi. Da lui ho tratto soprattutto la lezione della “sperimentazione”, che per me è la parola più importante. Senza la sperimentazione e la ricerca non puoi guardare più in là. Abbiamo il dovere dell’invenzione. E sembra strano che io lo affermi in un contesto del cinema del reale. Per me è il tratto più importante del cinema di De Seta. Nel periodo in cui conobbi lui, ebbi modo di incontrare Nam June Paik – considerato il padre della videoarte, la cui opera conoscevo già dagli anni ’80 – e Raùl Ruiz, il grande regista visionario cileno, con cui collaborai come aiuto regista in due film no budget girati a Fiumara d’Arte da Antonio Presti in Sicilia. L’incontro con Ruiz per me fu determinante, e la mia propensione verso il cinema di invenzione da allora non si è mai affievolita. Non a caso uno dei miei film preferiti in assoluto della storia del cinema è Il giudizio universale di Vittorio De Sica, in cui – in una Napoli scura – una voce che viene dal cielo interrompe tutte le nefandezze umane. La voce recita: “Alle 5 ci sarà il giudizio universale”. Ecco, questo elemento di invenzione innestato nel cinema neorealista rappresenta per me la sintesi di ciò che amo veramente. Non sono e non mi definisco un documentarista, anche se ho realizzato molti documentari. In uno di questi ho persino innestato un momento onirico, che è assolutamente fuori dall’idea di cinema del reale. Il cinema è fatto di queste tendenze: da un lato l’inizio documentario con i Lumière e subito dopo le invenzioni fantastiche di Méliès; ecco le due anime. Io le amo tutte e due, e mi piace quando si mettono insieme. Per me i due punti che rappresentano tutto questo sono De Seta e Ruiz, il cinema del reale e il cinema di invenzione. Li ho vissuti di persona. Non mi interessa il raccontino meccanico da fiction: mi interessa l’aria che respirano i personaggi, l’atmosfera che arriva allo spettatore, la parte interiore, le viscere dei personaggi, piuttosto che la “nuda meccanica degli eventi”. E l’ho mostrato nel mio film Lo Scambio. 
 

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