Mariangela D’Abbraccio: “Giorgio Albertazzi, un interprete moderno che ha fatto della propria vita un’opera d’arte”

Mariangela D’Abbraccio: “Giorgio Albertazzi, un interprete moderno che ha fatto della propria vita un’opera d’arte”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
 
 
 
 
L’attrice napoletana ricorda brevemente alcuni tratti essenziali del sodalizio sentimental-artistico con il grande attore fiesolano, che fu appunto suo maestro e mentore.
 
Com’è avvenuto il Suo primo incontro con Giorgio Albertazzi?
Con un provino. Furono dei provini durati giorni, cercava molti attori per alcune sue nuove produzioni. Vide gran parte degli attori della mia generazione. 
Come fu alfine conquistata da lui?
Era l'attore più moderno che avessi mai visto, e ancora lo è. Era avanti.
Cosa rappresentava a Suo avviso l’universo femminile per Giorgio?
Creatività, desiderio, sogno, arte.
Cosa significava invece secondo Lei il teatro per lui?
Un mezzo per entrare in contatto con l'intangibile. In una dimensione magica.
Dei diversi spettacoli teatrali interpretati insieme, quali sono quelli che Lei ama ricordare di più e perché?
Sicuramente gli atti unici di Cechov Svenimenti, perché rappresentava la mia prima prova impegnativa e Giorgio era in una versione insolita. Fu un successo. Poi ci sono spettacoli che raccontano più il personale come Dannunziana. Ed infine ho amato Borges Piazzolla, il suo ultimo spettacolo che mi ha chiesto di condividere con lui. Dopo più di vent’anni che non recitavano insieme.
Come ha piuttosto vissuto al suo fianco quel paio di vostre esperienze televisive?
Più che la partecipazione allo sceneggiato Passioni, ricordo soprattutto Il potere degli angeli con la sua regia. Fu una esperienza per me molto gioiosa ed eccitante. Aveva grande talento per la regia televisiva.
Giorgio è stato appunto anche acclamato protagonista sul piccolo schermo (da L’idiota al Dr. Jekyll), mentre al cinema – con la sola importante eccezione di L’anno scorso a Marienbad di Alain Resnais – non ha mai davvero “bucato”, come si dice in gergo: l’ha vissuto forse come un cruccio frustante per la propria prestigiosa carriera, per quel che ne sa?
È stato comunque sia un grande divo televisivo,  uno dei primi. Con il cinema italiano forse non c’è stato un grande incontro. Lui non rappresenta l’italiano medio. Era fuori razza.
Per l’idea che se n’è fatta, quanto c’era della Vita nell’Arte e dell’Arte nella Vita secondo Giorgio?
Vita e Arte erano la stessa cosa per lui. E della sua Vita voleva farne Arte.
Che insegnamento Le ha lasciato Giorgio dal punto di vista sia umano che scenico, e come ha inteso portarlo avanti nel corso della Sua carriera anche dopo la fine del vostro sodalizio sentimentale e artistico?
È difficile a dirsi. Io sono anche il risultato del mio incontro con un maestro così unico come lui.
A tre anni dalla scomparsa, cosa crede manchi maggiormente di lui alla cultura italiana?
 
Il suo talento, che diventava provocazione. Punto di vista originale e unico nel guardare la nostra storia, e questo ne faceva un genio. Questo oggi manca siamo nel tempo della mediocrità rassicurante. Non cerchiamo il genio, il talento.

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