Mattia Sbragia: “Mio padre Giancarlo, autentico innovatore delle scene nostrane grazie alla propria straordinaria levatura intellettuale”
a cura di Alessandro Ticozzi
L’attore rievoca sentitamente la figura del celebre genitore, tra gli uomini di teatro più rappresentavi del secondo Novecento italiano: con una punta di rammarico per la sua assenza nel così desolante panorama cultural-politico odierno.
Una volta maturatosi in complessi importanti – sia pubblici, come il Piccolo Teatro di Milano, sia privati, come la Compagnia Pagnani-Cervi e la Compagnia del Teatro Nazionale – , cos’ha portato a Suo avviso Giancarlo a divenire uno degli attori più significativi della propria generazione?
Credo che lui lo fosse già di suo: apparteneva ad una generazione che era stata in Accademia, formandosi insieme professionalmente. Io mi ricordo di avere incontrato da ragazzino Buazzelli, Panelli, Gassman e Manfredi: erano tutti compagni che si frequentavano, nonostante le diverse fortune di ognuno. Papà ha continuato nel teatro, che gli era più consono e nel quale otteneva maggior riuscita: aveva una grossa presa sul pubblico senza un eccessivo affaticamento e una voce calda che arrotondava l’orecchio dell’auditore, ma soprattutto era un formidabile intellettuale. Per cui a un certo punto ha sentito il bisogno di staccarsi dalle grandi compagnie da Lei citate per sostenere qualcosa di nuovo in un panorama che – a quei tempi – era stato un po’ strangolato dai teatri stabili, che non lasciavano spazio di nessun genere.
Cosa spinse Giancarlo – fin dalla stagione 1957-58 – ad impegnarsi con successo anche come regista (Ricorda con rabbia di John Osborne), fino all'esemplare Sacco e Vanzetti di Roli e Vincenzoni in quella 1960-61?
Proprio per quest’urgenza di esternare una propria visione anche culturale di ciò che era la sua ricerca nel campo italiano, incominciò da subito allestendo un autore “maledetto” come Osborne e successivamente Roli-Vincenzoni, che fecero quel pregevole Sacco e Vanzetti da cui Montaldo trasse il suo film che andò all’Oscar: pure loro avevano la pulsione di raccontare delle cose nuove, uscendo dai Goldoni e dai manierismi di certi generi teatrali molto accademici che non interessavano più a nessuno per trovare un forte riscontro di interesse da parte del pubblico.
Nella Compagnia degli Associati, cosa indusse Giancarlo a far quindi prevalere l'attività di regista su quella di attore (Caligola di Camus, Strano interludio di Eugene O'Neill, Il vizio assurdo di Diego Fabbri e Davide Lajolo, sulla figura di Cesare Pavese, e – sempre di Fabbri – Il commedione del Belli)?
Invero lui ha fatto regia contemplando sempre sé stesso come protagonista degli spettacoli che metteva in scena: come il nome vuole, gli Associati nacquero proprio da un associazione di interesse di attori, intellettuali e professionisti che avevano lo stesso sogno nel cassetto di cambiare il teatro in Italia. Fulvio Fo, il fratello di Dario, prese in mano la situazione e – grazie alla sua genialità – gli Associati cominciarono a battere il territorio nazionale in maniera continuativa: erano già sulla cresta dell’onda quando incominciavo a fare la gavetta al loro seguito, e mi ricordo che si facevano sette-otto mesi di tournée con un unico spettacolo, per poi concludere le prove in finale di stagione per iniziare quella estiva. Quando Papà incominciò ad affrontare testi come il Caligola o Strano interludio, io ero direttore di palcoscenico di spettacoli che contemplavano un montaggio abbisognante di otto ore e mezza di montaggio e quattro e mezza di smantellamento: il tempo restante si trascorreva viaggiando, per cui molto spesso non si dormiva. Erano spettacoli monstre che duravano quattro ore e mezzo: li portavamo in giro per quattro-cinque anni, battendo tutti gli incassi possibili e immaginabili in teatri in cui attori come Alberto Lionello – che faceva L’anatra all’arancia – incominciavano a smettere. Invece noi andavamo alla grandissima: eravamo diventati il primo teatro cooperativo privato subito dopo il Piccolo di Milano, dove Papà aveva peraltro iniziato. Io credo che il suo lavoro davvero importante sia stato quello dell’intellettuale che ha scoperto e tradotto testi inscenati in maniera costante e infaticabile: è stato un uomo che ha perseguito anche le proprie convinzioni, fino al punto di diventare Assessore alla Cultura del Comune di Roma per il Partito Comunista.
Negli anni Ottanta Giancarlo diresse e interpretò I demoni e La sonata a Kreutzer di Fëdor Dostoevskij, La bella Addormentata di Pier Maria Rosso di San Secondo e ottenne particolare successo con L’amante compiacente di Graham Greene, accanto a Giovanna Ralli: cosa possiamo trovare del suo impegno in queste successive messinscene?
Atterrò su Giovanna perché erano amici da ragazzini: insieme portarono avanti questa compagnia affrontando un repertorio abbastanza classico di non classici italiani, giacché non stiamo certo parlando de I due gemelli veneziani. Trovo che in quegli anni Papà abbia comunque tentato di condurre un discorso politico-intellettuale se non altro di innovazione nel cercare delle strade letterarie per portare avanti il panorama culturale anche teatrale.
A oltre un quarto di secolo dalla scomparsa, cosa Le manca maggiormente di Giancarlo come padre e come uomo di teatro?
Oggi mi piacerebbe trovare un altro uomo di teatro così per poter avere degli scambi: io lo sostituii con ricercatori quali Giorgio Strehler – con cui ho fatto cinque spettacoli e svariati anni al Piccolo – e Mario Missiroli. Quella di portare avanti un discorso autoriale e di penetrazione nel senso culturale delle cose e della politica è diventata la mia malattia: c’è stato chi ha lavorato sodo per annientare la politica intellettuale italiana e abbiamo fatto un salto indietro pari pari di trentacinque anni, tornando così alle istituzioni dei teatri stabili e all’immobilità di un imprenditoria scenica che non esiste più. Esistono delle persone che s’imbarcano in imprese disperate che finiscono sempre in fallimenti, coinvolgendo professionisti che non risultano più tali perché non riescono ad avere una continuità lavorativa e neppure raziocinativa nelle scelte: si fa politica anche scegliendo di fare una cosa piuttosto che un'altra. Tutto ciò è sparito totalmente dal territorio, e ci sono unicamente proposte che passano o meno: in questo mio padre mi manca moltissimo. Era una figura paterna abbastanza anomale e difficile: abbiamo avuto un rapporto piuttosto complicato, però – standogli accanto quattordici anni sulle scene – ho imparato tutta una parte della sua vita etica e politica che lui conservava e continuava a portare avanti in maniera importante. Ci scontrammo anche pesantemente quando lui fece La sonata a Kreutzer: me la fece leggere perché voleva interpretarla sotto la mia direzione. Gli dissi che secondo me non poteva funzionare, ed ebbi torto marcio perché fece delle tournée addirittura europee con un successo strepitoso: lui mi aveva avvertito che stavo sbagliando, però me lo lasciò fare ugualmente. Tra noi due c’era un rapporto di interscambio molto importante eticamente e culturalmente più che umanamente tra padre e figlio: ammesso e non concesso che un rapporto possa terminare nel fatto di dirsi padre e figlio. Trovo che mi abbia lasciato un eredità fondamentale e importantissima per la quale mi batto, cercando di portare avanti taluni discorsi con continuità: anche se gli ostacoli e le porte chiuse sono veramente tante.