Maurizio Colombi: “Piero Mazzarella, un'istituzione del teatro dialettale milanese”

Maurizio Colombi: “Piero Mazzarella, un'istituzione del teatro dialettale milanese”

di Alessandro Ticozzi
 
Il noto autore di musical ricorda il suo “maestro”, che – insieme al fratello Rino Silveri – fu il massimo rappresentante delle scene vernacolari meneghine.

Dopo aver fatto il suo apprendistato in compagnie minori, come approdò Piero negli anni Sessanta alla Stabile milanese che agiva al Teatro Gerolamo?
Perché la direzione artistica del Gerolamo rimase talmente colpita vedendolo interpretare il personaggio del Tecoppa sulle passerelle di varietà insieme ad altri grandi attori da proporgli di recitare per la loro compagnia.
Una volta sciolta questa formazione, cosa spinse Piero a formare una propria compagnia, continuando a recitare in dialetto e proponendo – insieme con i vecchi personaggi di Edoardo Ferravilla– novità appositamente scritte per lui da autori contemporanei, tra i quali Rino Silveri?
Il mestiere dell’attore non è mai stabile, bensì sempre alquanto precario: Piero aveva comunque una famiglia già numerosa da mantenere, per cui potersi fermare a lavorare a Milano con una propria compagnia stabile era più sicuro e vantaggioso. Lui e Rino Silveri – che era appunto il nome d’arte del fratello Mario Mazzarella – in realtà avevano sempre lavorato in coppia: Piero chiaramente emergeva come attore perché era più comico, mentre Mario – essendo più autore – aveva maggiormente i piedi per terra. Le caratteristiche che mancavano a Piero ce le aveva il fratello: perciò misero in piedi la loro compagnia con il nome di Piero Mazzarella in qualità di attore di spicco, quando in realtà questa era stata fondata da Rino. Infatti Piero lavorava assoldato da Mario, che sosteneva l’intero rischio d’impresa.
Cosa stimolò Piero a partecipare a spettacoli del Piccolo Teatro quali L'eredità del Felis di Illica e Il barone di Birbanza di Maggi?
Pur essendo sicuramente un attore comico, Piero in realtà aveva delle corde che gli permettevano di passare dal comico al drammatico con una velocità che raramente io ho potuto cogliere in qualunque altro interprete. Finché recitava in casa era facile perché tutto costruito su misura per lui: quando tuttavia gli veniva proposto qualcosa soprattutto al Piccolo Teatro, era talmente importante esibirsi in una vetrina come quella che Piero andava di corsa a interpretare commedie che rappresentavano un modo di farsi vedere in altre vesti.
Nel 1992 Piero interpretò con la propria compagnia la commedia in dialetto milanese Mi e loo semm in doo: l’ennesima conferma del suo fortissimo legame con il repertorio vernacolare?
Certo, dal momento che – se da un lato poteva sembrare una cosa un po’ limitativa – dall’altro gli dava un enorme autorità su tutto il territorio di Milano e provincia, essendo l’unico rappresentante totalmente serio e acculturato che poteva sostenere il dialetto milanese. Pur andando tantissimo di moda i Legnanesi, al tempo era Piero che aveva realmente monopolizzato l’intera scena meneghina: ciò avvenne anche perché Mario sfornava due commedie al mese a pennello per lui. Essendo infatti già con loro dal San Calimero in poi, io mi ricordo che scriveva tali commedie mentre noi ne stavamo provando una sul palco al pomeriggio per rappresentarla il mese dopo: di modo che avevamo già in scena la commedia del mese prima e provavamo quella del mese successivo, allestendo praticamente otto commedie all’anno sempre nuove. Questa era la forza della compagnia, che era arrivata ad avere migliaia di abbonati letteralmente impazziti per le suddette commedie in milanese – a volte drammatiche, altre comiche – che facevano sistematicamente emergere Piero in un modo pazzesco.
Nel progetto dedicato alla cultura lombarda dal Teatro Franco Parenti di Milano nel 1994, cosa indusse Piero ad interpretare – curiosamente – un ruolo non in dialetto quale il Prospero de La tempesta, dal romanzo di Emilio Tadini?
Ricordo perfettamente quando lo chiamò Andrée Ruth Shammah per proporgli questo lavoro in quanto quel giorno andai insieme a lui proprio al Franco Parenti: lei gli spiegò il progetto e a Piero piacque parecchio, pur avendoglielo fatto aggiustare a suo piacimento. Era comunque un allestimento molto bello, anche se chiaramente Piero era un po’ meno comodo del solito in quanto abituato ad essere in qualche modo “coccolato” dal fratello. Tuttavia mi era assai piaciuto in quello spettacolo perché era riuscito a recitare in perfetto italiano facendo un ruolo abbastanza drammatico: mentre infatti nelle commedie abituali magari si permetteva di uscire dalla parte, lì rimaneva più castigato al suo posto, ma – quando riusciva a trattenersi in una giusta misura – era parimenti un fenomeno.
Nello stesso anno Piero vinse il Premio Idi (Istituto del dramma italiano) per l'impegno a favore della conoscenza e della conservazione del dialetto: quanto fu importante questo riconoscimento per lui?
Molto, perché ne parlava spesso: quando lo prese fu molto contento, pur essendo secondo me un riconoscimento ancora limitato per Piero. Io ho infatti lavorato con tanti attori, ma devo dire che come lui e Rino – che, essendo sempre vissuto più come autore e regista, era valutato un po’ meno come interprete – non ho mai trovato nessuno: un premio quindi senz’altro meritato, anche se a mio avviso ne avrebbe dovuti vincere molti di più.
Lei si è formato proprio alla scuola dei fratelli Mazzarella: quanto sono stati importanti i loro insegnamenti per la professione di attore, regista e commediografo che a Sua volta avrebbe poi intrapreso sulle scene?
Per me sono valsi tutto, perché io ho preso tutto da loro: come attore – soprattutto per le parti comiche – ho rubato tantissimo a Piero Mazzarella, che riconosco essere stato il più grande attore con cui io abbia mai lavorato, al punto che tuttora mi porto dietro il suo avermi preso un po’ sotto la sua ala. Tutta la parte da autore e regista l’ho invece sicuramente assorbita da Mario, che è stato il mio vero maestro fin dall’inizio. Avendo fatto quasi cento commedie con loro, vedevo infatti come le scriveva e montava: effettivamente ancora adesso – con ormai più di cinquanta musicale commedie alle spalle – la tecnica che uso è il metodo Silveri.
Quest’anno cadono sei anni dalla scomparsa di Piero: cosa crede abbia lasciato come uomo e come attore?
Secondo me è stato un grandissimo attore: siccome Milano è una città molto aperta all’Europa, siamo così poco campanilisti che il nostro folklore si perde. Se Piero fosse vissuto a Roma o a Napoli, l’avrebbero osannato molto di più di quello che è stato: per cui come interprete io lo reputo forse il più grande che io abbia mai incontrato fra i tanti. Essendo un personaggio, come uomo invece Piero potevi solo odiarlo o amarlo senza mezze misure: nondimeno possedeva un egoismo tremendo ma simpatico, per cui riusciva ad essere sé stesso mandandoti a cagare e contemporaneamente facendoti ridere al momento giusto. In fondo – con la sua bravura e grandezza – si faceva così voler bene da nutrire sempre un rispetto da parte di tutti che gli permetteva di essere anche un po’ prepotente: mi diceva infatti sempre che, quando aveva ragione, non guardava in faccia nessuno.

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