OMAGGIO A DOMENICO MODUGNO

OMAGGIO A DOMENICO MODUGNO

 
 

 
di Alessandro Ticozzi
 

 
 
A colloquio con Maurizio Ternavasio, autore di La leggenda di Mister Volare (Giunti, 2004). In chiusura, il ricordo di Franco Migliacci.
 

 
Mimmo esordì nel 1953 come cantautore: come mai per le sue canzoni si serviva spesso di materiali popolari pugliesi e siciliani (Lu pisce spada, Ninna nanna, La donna riccia, L’olivaro), nonché napoletani (Strada ‘nfosa, Resta cu’ mme)?
 
Perché la vena popolare, almeno all’inizio, gli era più congegnale. Affacciarsi al mondo della canzone da conosciuto comportava dei rischi, in quanto non aveva ancora preso consapevolezza della sua vena creativa. Ed essendo lui un ragazzo del Sud, anche se costretto a e migrare a Torino per trovare un lavoro, dominava meglio di ogni altri i motivi popolari della sua terra, che si sposavano alla perfezione con la dimestichezza che aveva con la sua chitarra. E se il repertorio pugliese e siciliano allora era pressoché inesplorato, la musica napoletana era un ever green che gli consentiva di battere una strada che non poteva che farlo conoscere a poco a poco al grande pubblico.
 
Quanto furono importanti brani come Nel blu dipinto di blu, Piove e Dio, come ti amo! - con cui vinse i Festival di Sanremo del 1958, 1959 e 1966 - per l’ammodernamento dei gusti musicali del pubblico italiano?
 
Fondamentali, soprattutto il primo, quello del 1958. Sino ad allora i cantanti erano confinati in un eremo di mamme sempre sorridenti, papaveri e papere, vecchi scarponi, brani da interpretare in maniera compita e strappalacrime. Modugno invece si impose come cantanteattore, cioè come un artista che le sue canzoni non le cantava soltanto, ma le interpretava come si conveniva, finalmente, a chi saliva su un palcoscenico davanti a milioni di persone. Braccia levate al cielo, espressioni intense, testi che facevano pensare. Prima della sua affermazione, tra i moderni c’erano soltanto i cosiddetti urlatori e Fred Buscaglione.
 
Cosa spinse Mimmo a cimentarsi anche come attore teatrale, interpretando tra l’altro le commedie musicali Rinaldo in campo e Cyrano (1979); Liolà di Pirandello e L’Opera da tre soldi (1973) di Brecht?
 
La sua curiosità, la sua voglia di impegnarsi su più fronti, di mettersi alla prova in contesti diversi. In alcuni casi alle prese con commedie musicali, dove poteva sperimentare il suo essere doppio di cantante-attore, in altri con grandi classici. Il mondo dello spettacolo, secondo Mimmo, non poteva essere a comportamenti stagni e confinato in pochi, angusti spazi. Per la stessa ragione scelse di dedicarsi anche al cinema e poi alla televisione, anche se in cuor suo, se avesse dovuto dare una definizione di se stesso, si sentiva prima di tutto un cantante, o meglio un cantastorie.
 
Come si manifestò negli anni Ottanta la malattia che ne interruppe l’attività?
 
Nel 1984, quando aveva cinquantasei anni, in un momento di forte stress professionale coincidente con le registrazioni dello spettacolo La luna del pozzo per Fininvest, Modugno era reduce da numerosi impegni (come la tournée a New York) molto faticosi. Le prove del programma duravano sino a undici-dodici ore al giorno, e per di più Mimmo era un forte fumatore. A un certo punto ha un malore, si sente male, lo soccorrono, si ferma. Arriva un medico, gli presta le prime cure. Dopo un po’ gli misura di nuovo la pressione, che era tornata normale. Modugno con un po’ di fatica torna a registrare sino alla fine. Poi va in albergo, si sente di nuovo male, chiama i soccorsi, viene trasportato in ospedale. Inizialmente sembrava che non si trattasse di nulla di grave, mentre invece si era trattato di una trombosi non trattata come tale per quasi trenta ore. Due giorni dopo, sempre in ospedale, subirà gli effetti devastanti di quell’ictus che gli diede ancora dieci faticosissimi anni di vita.
 
Come mai Mimmo dal 1987 al 1992 fu senatore nelle liste del Partito Radicale?
 
Nel 1987 viene cooptato per acclamazione membro dell’ufficio di presidenza del partito radicale. Tra le sue prime battaglie, quelle a favore dei detenuti e dei malati di mente. La moglie aveva spiegato con poche parole il perché del suo impegno. “Aveva ritenuto opportuno occuparsi in prima persona dei guai degli altri, un po’ come faceva ai tempi in cui ci siamo conosciuti, quando era il paladino di chi faceva fatica a tirare avanti.” E Modugno in un’intervista dirà: “Prima non avevo abbastanza occhi per i problemi della gente.”
 
A più di vent’anni dalla scomparsa, cosa rimane di Mimmo come uomo e come artista secondo lei?
 
Non è difficile dire cosa rimane di Modugno vent’anni dopo la sua morte e più di mezzo secolo dopo il successo mondiale di Nel blu dipinto di blu. Rimangono innanzitutto le sue canzoni, piccoli capolavori di grande intensità, affreschi di storie vere che lui metteva in musica. Rimane la storia del Festival di Sanremo, che senza Mimmo non sarebbe assurto a una popolarità internazionale. Ma rimangono anche nella memoria e nelle immagini in bianco e nero della TV le sue meravigliose commedie musicali, i suoi film. Rimane soprattutto la grande avventura e l’esempio di un artista che si è fatto da solo grazie ai propri mezzi non comuni e a un’infinita voglia di arrivare lassù, dove pochi riescono ad arrivare.
 
Per chiudere questo pezzo, il ricordo di Franco Migliacci. “Incontrai Modugno per caso: sin dal primo dialogo riscontrai delle similitudini tra me e lui. Aveva due anni più di me e un carattere molto più infiammabile rispetto a me: tuttavia era pieno di sogni come me. C’incontrammo che erano appena due mesi che vivevo a Roma: mi presentai per un film, Carica eroica, per il quale cercavano degli attendenti che parlassero in dialetto. Al regista De Robertis mancava il dialetto toscano: io ero venuto via da Firenze, mi presentai, feci il provino e mi presero subito, così come presero subito Modugno come siciliano. Non lo era, ma aveva cantato una canzone in siciliano e quindi lo presero in quanto tale: tra una pausa e l’altra del film, capimmo che c’era qualcosa che ci univa. Mimmo mi chiese: ‘Ma perché sei qui a Roma?’ ‘Perché sono scappato da mio padre militare che voleva facessi il ragioniere.’ Era il 1952: si doveva ricostruire il Paese e allora erano importanti i ragionieri e i geometri. Allora dissi a mio padre: ‘Fammi fare il geometra: sono bravo in disegno.’ ‘No, perché abbiamo dei parenti alla Cassa di Risparmio di Firenze: quindi tu farai il ragioniere.’ Io mi sentii morire: i numeri li ho sempre odiati. Modugno mi disse: ‘Anche a me successe la stessa cosa: mio padre voleva che facessi il ragioniere.’ Ci mettemmo a ridere tutti e due. ‘Siamo salvi: perdoniamo i genitori, hanno sbagliato.’ Non finì lì con mio padre, come per Modugno del resto: i padri insistono sempre. Sembrava il destino avesse deciso che ci dovevamo incontrare: dovevamo essere ragionieri, invece non lo siamo diventati. Era una similitudine che ci avvicinava molto.
 
Modugno era molto generoso con me: era un amico vero. Si dice che quando trovi un amico trovi un tesoro: a me è successo questo. Io avevo quest’amico che, quando mi vedeva un po’ triste e depresso, capiva che avevo problemi economici, e allora mi diceva: ‘Facciamo il giro: hai debiti con qualche negozio?’ Mi ricordo che un giorno mi accompagnò in sei negozi a saldare i buffi - come si chiamavano a Roma i debiti - con questi negozianti, dopodiché mi disse: ‘Franco, io ti sto aiutando: se un giorno io avessi bisogno, mi aiuteresti?’ ‘Mimmo, per forza: sei un amico prezioso e ti ripagherò del bene che mi fai.’ ‘Allora intanto prova a darmi l’idea per una canzone.’ ‘No, le canzoni le odio: non le sopporto.’ Era vero, perché in quel periodo - parliamo dei primi anni Cinquanta - c’erano delle canzoni molto melodiche e lagnose, sull’amore cantato con la mano sul cuore: insomma, melodie vecchie, stantie e impossibili. Per i giovani non potevano andare bene, però nessuno si ribellava, e allora gli dico: ‘Io non me la sento: a me piace quando canti le tue canzoni alla maniera degli antichi Greci e Latini, che davano una personalità umana agli animali.’ Nel suo repertorio infatti c’erano ad esempio Lu sciccareddu mbriacu, Cavaddu cecu de la minera e la bellissima Il pesce spada: quella del pesce che si suicida sulla spiaggia per morire accanto al suo amore femminile che era stato pescato e buttato là dai pescatori. ‘Queste cose mi piacciono, ma io in dialetto non so scriverle: questo è un mondo tuo bellissimo, tientelo.’ Un giorno successe che lui mi vide triste e disse: ‘Ti vedo proprio depresso.’ ‘Sì, perché è capitata una delle cose peggiori: m’hanno annullato un doppiaggio che doveva durare centodue giorni. Un film lunghissimo e difficilissimo: doveva durare tre mesi, adesso devo stare fermo.’ ‘Facciamo una cosa: domani fatti trovare alle dieci a Piazza del Popolo, ti porto al mare e ci stiamo quanto ci pare.’ Invece alle dieci non venne, e nemmeno alle undici e alle dodici: mi sentii male. Pensavo: ‘Sto nei guai pazzeschi: in più il mio migliore amico mi tradisce così’. Siccome vengo dalla Toscana, mi sono preso un fiaschetto di Chianti, perché avevo poche lire in tasca, e andai a dormire nella camera a ingresso libero che avevo vicino a Piazza del Popolo: nel pomeriggio mi sono risvegliato. Avevo due riproduzioni su carta liscia del pittore Chagall attaccate al muro: una era Le coq rogue, con un omino che volava sopra un gallo rosso, e l’altra era Il pittore e la modella, laddove il pittore aveva mezza faccia dipinta di blu. Probabilmente è stato quello l’input che ho avuto: senza ragionarci, m’è venuto spontaneo di dire: ‘Di blu mi sono dipinto per intonarmi al cielo, lassù nel firmamento volavo verso il sole: e volare, volare felice, più in alto del sole e ancora più su, mentre il mondo pian piano scompare lontano laggiù.’ Per mandare al diavolo il mondo intero che non mi voleva e non m’accettava creandomi problemi. La sera mi telefona Modugno: ‘Ci vediamo? Scusa, poi ti spiego.’ Era andato al mare con Franca Gandolfi, che sarebbe diventata la moglie: gli faccio: ‘Me lo potevi dire: Franca per me è una sorella, siamo amici tutti e tre. M’è venuta in mente un’idea per un brano: non è una canzone normale.’ Mi strappa il foglio di mano e lo legge: ‘Questa è un’idea: andiamo a Sanremo e lo vinciamo! È troppo forte!’ ‘Sei matto?’ ‘Sì, te lo dico io: vedrai.’ Abbiamo lavorato sei mesi per finire di scrivere il testo, perché m’ha detto: ‘Ti devo insegnare come si scrive una canzone: qua si fa la strofa, poi c’è il ritornello, l’inciso e si ripete una seconda strofa, fino al finalino.’ Sei mesi di litigate e di amicizia: infatti si litigava su tante cose, però ci si trovava d’accordo. Fu mandata dall’editore Gramitto Ricci di Milano a Sanremo per il Festival, ma nessuno la voleva cantare: aveva preso dalla giuria novantanove voti su cento. Era una disfunzione della giuria: io mi stupii e dissi: ‘Ma chi è che ha votato nove?’ ‘Il presidente, perché ha detto che la perfezione non esiste.’ ‘È anche spiritoso? Comunque sono novantanove sì.’ Mi dice Modugno per telefono: ‘Io sono a Parigi: non torno neanche a Roma in questo momento, resto qui a lavorare a Parigi perché non la vuole cantare nessuno.’ ‘È un grave problema: dice che è una canzone che non sta né in cielo né in terra.’ ‘Digli che è così per forza: uno che vola non sta né in cielo né in terra.’ ‘Se ci sono notizie te le farò avere.’ Poi mi ritelefonò dicendo: ‘Hanno trovato il cantante: indovina chi è?’ ‘Non lo so: dimmelo.’ ‘Sono io: mandano me.’ Allora ogni canzone era cantata da due artisti: trovarono un debuttante che non poteva dire di no, Johnny Dorelli, che aveva tutto un altro stile molto più tranquillo, però era bravo. Andammo a Sanremo e successe quello che successe: un successo pazzesco. Io mi ricordo solo le prime parole che mi disse Modugno insieme a Gramitto Ricci: ‘Vuoi un milione o vuoi venire in America con me per la tournée?’ ‘Il milione lo riavrò, ma andare in America non so se potrò ancora.’ Così generosamente mi portò in America e mi dette anche un milione: prendemmo un sacco di premi, e Modugno ebbe un successo strepitoso – dall’Australia agli Stati Uniti, fino al Canada. Ovunque si andasse c’era un trionfo: Modugno è stato uno che m’ha anche insegnato un mestiere, perché poi ho iniziato a scrivere canzoni e non l’ho finita più.
 
Si dice che ogni artista è figlio del proprio tempo: io dico che Modugno è il padre del proprio tempo. Lui è stato completamente innovativo: dopo Modugno, molti hanno cominciato a capire come si dovevano scrivere le canzoni e come si doveva cantarle. Basta la mano sul cuore e il finalino! Per me è stato un fratello maggiore, mentre Morandi qualche anno più tardi sarebbe stato un fratello minore. Modugno mi ha insegnato tante cose: non solo a comporre le canzoni, ma anche a vivere sapendomi comportare con gli altri. Io ero molto più rispettoso, mentre lui - grazie all’impulso meridionale e al carattere grintoso - si faceva rispettare: se aveva delle cose da dire, le diceva e non si risparmiava. M’ha dato un senso di liberazione vivere così, quindi gli devo molto: Polignano a Mare, il suo paese natale, è bellissimo, e la statua di Modugno lo fa diventare più bello ancora”.
 

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