Paolo Puppa: “Cesco Baseggio, il più grande interprete del teatro veneto”

Paolo Puppa: “Cesco Baseggio, il più grande interprete del teatro veneto”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
L’accademico e drammaturgo veneziano rievoca la figura dello “storico” attore suo illustre concittadino, cui dedicò il volume Ritratto dell’attore da vecchio (Cierre 2003).
 
Una volta diventato capocomico nel 1926, cosa spinse Cesco a specializzarsi nel repertorio goldoniano, riprendendo e rinnovando con geniale originalità una tradizione gloriosa?
Dopo l’enorme successo a livello nazionale riscontrato dal Mercante di Venezia shakespeariano adattato su misura per lui da Guido Perale e Adriano Lami, i grandi produttori offrono a Cesco Baseggio di lasciare Venezia, ma egli rinuncia e si consegna a un destino locale dentro cui – avendo un gusto eclettico per il repertorio – voleva in qualche modo salvare Carlo Goldoni come griglia di trasmissione tra tradizione e innovazione: tra l’altro Baseggio era anche molto portato per quel repertorio veneto di fine ‘800-primi ‘900 che andava da Gino Rocca a Eugenio Ferdinando Palmieri. Una volta diventato il più importante attore televisivo degli anni Cinquanta grazie agli allora celebri venerdì teatrali, egli sottolinea particolarmente l’importanza predominante di Goldoni dentro un repertorio veneto che aveva già sperimentato negli spettacoli en plein air, dopo che nel 1934 era cominciata la grande avventura della Biennale Teatro. Goldoni era pertanto l’asse portante di un repertorio che – nella strategia di Baseggio – voleva essere nazional-popolare partendo dal dialetto, verso cui naturalmente aveva questa predilezione da grande veneziano.
Cosa indusse Cesco negli anni Cinquanta a portare in scena anche i testi del Ruzzante e a riscoprire i drammi di Renato Simoni?
Nel 1949 l’Attore interpreta prima il Bilora e poi il Parlamento di Ruzzante: io ho intervistato i vecchi che erano stati testimoni in platea, e alcuni di loro mi raccontavano che sentivano la puzza e la paura della guerra pur se finita da quattro anni. Baseggio quindi rende tragico Ruzzante, sconvolgendolo nei suoi intenti d’autore originari: solitamente il dialetto viene infatti accostato alla comicità – grazie anche alla tradizione delle maschere della Commedia dell’Arte – e da sempre risulta una specie di territorio impermeabile al dramma, con il quale invece Cesco lo rende appunto compatibile. Questo rappresenta il motivo per cui amava moltissimo anche Renato Simoni, che – non essendo veneziano ma veronese – usava un dialetto di territorio regionale più che lagunare: tuttavia testi come Tramonto – ricavato della Famegia del santolo di Gallina, a sua volta ispirata all’Anatra selvatica di Ibsen – dimostrano ancora una volta la compatibilità tra dialetto e serietà realistica con venature e risvolti tragici.
Come mai l’attività cinematografica di Cesco, nonostante l’intensità, rimase di scarso rilievo?
C’è di mezzo la politica: con il crollo del fascismo e gli ultimi due anni di guerra in cui si forma la Repubblica di Salò, viene chiusa Cinecittà e tutte le strutture vengono spostate alla Scalera Film, società di produzione ospitata alla Giudecca. Per ragioni fondamentalmente di budget, venivano utilizzati gli attori locali: in quel biennio vengono quindi girati moltissimi film di repertorio evasivo, dalle commedie d’ambientazione ungherese alle pellicole in costume. Tuttavia in particolare Baseggio non viene utilizzato come protagonista: ricordiamo che lui – come gli altri suoi colleghi “moschettieri” Carlo Micheluzzi, Gino Cavalieri e Gianfranco Giachetti – fondamentalmente non si manifesta in quanto amoroso bensì quale carattere per figure grottesche. Ecco perché tutti loro tendevano ad invecchiarsi e a sagomarsi in una sorta di macchietta: per cui il repertorio che si costruivano era composto da ruoli patetici e malinconici, come se la Repubblica Veneta fosse capace di secernere il meglio di sé nel tema della senectus. Questo spiega perché Baseggio accettava parti minori, che tuttavia gli consentivano di accumulare un’enorme fortuna purtroppo da lui dilapidata al gioco: tanto che è morto senza poter lasciare agli eredi la possibilità di fare un funerale, pagato dal comune di Venezia.
Cosa rimane oggi di Cesco come uomo e come attore?
 
Si consideri lo straordinario attore veneziano Mario Valgoi: a mio parere in lui c’era qualcosa di Baseggio, tanto formidabile nell’interpretare i vecchi già ventenne quanto negato per fare l’innamorato. Questo conferma che in una cultura del territorio si crea una specie di ecosistema: le voci restano nell’aria, e quindi la phoné di Cesco – voce impostata da asmatico, essendo fumatore eccezionale che alla fine morì praticamente soffocato – non si è persa ma è rimasta in determinati  allievi, spesso diventati maestri di dizione all’Accademia d’Arte Drammatica “Silvio D’Amico” di Roma, a dimostrazione del carisma e dell’energia del nostro dialetto come lingua nazionale. Questi grandi attori usciti dal suo magistero erano infatti in grado di avere una dizione italiana perfetta: nel mio piccolo posso citare anche me stesso, in quanto ogni tanto da commediografo mi metto in scena quando si tratta di monologhi. Facendo parti da vecchio, mi viene naturale di baseggiare: tant’è vero che il mio carissimo amico Nico Garrone – autorevole critico teatrale su Repubblica, padre del regista Matteo – ha scritto che gli sembravo Baseggio dopo avermi visto interpretare a Venezia una serie di soliloqui, editi da Bompiani. Mi ha fatto un grande complimento in quanto confermava la mia teoria che – anche se l’attore teatrale crea sull’acqua – in qualche modo la sua voce non si spegne ma prosegue grazie a figli e nipoti: quindi – quando qualcuno incarna un vecchio in termini dialettali – senza che se ne renda conto c’è in lui qualcosa che riaccende i motori del repertorio di Baseggio.

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