Pino Micol: “Il teatro come massima forma di arte creativa, guidato dai grandi maestri”
a cura di Alessandro Ticozzi
Il grande attore barese racconta la sua intensa carriera scenica, segnata dall’incontro con alcuni dei più importanti registi del panorama nostrano e talvolta tentata dall’autodirezione.
La Sua carriera è soprattutto legata all'incontro con il regista Maurizio Scaparro, che L’ha diretta in testi di grande impegno come Amleto (1972) e Riccardo II (1975) di Shakespeare, Cyrano de Bergerac (1977) di Rostand, Caligola (1983) di Camus, Vita di Galileo (1988) di Brecht ed Edipo re nella versione di Pier Paolo Pasolini (1996): quant’è stato importante per Lei tale sodalizio artistico?
È stato molto importante, perché non si affida a un giovane attore neanche trentenne l’Amleto: Scaparro ha avuto molta fiducia, e difatti l’Amleto è stato il mio lancio. Gliene sono molto grato: della dozzina di spettacoli che ho fatto con lui, alcuni forse non mi convincevano molto; ma il senso di riconoscenza ha vinto. Quelli da Lei nominati mi hanno maggiormente coinvolto e interessato, anche perché lui si è sempre fidato molto di me e – nello stesso tempo che mi ha dirigeva – mi ha pure un po’ allevato come regista: siccome mi ha fatto partecipare molto alla costruzione del mio personaggio, ho fatto anche una bella scuola di regia. In particolare per il Cyrano – lo spettacolo che mi ha dato più risonanza insieme all’Amleto, imponendomi come primattore – la mia partecipazione è stata molto larga: siccome è una persona che non impone ma chiede suggerimenti e collabora molto con gli attori se ne ha fiducia, quando ho dovuto affrontare la regia mi sentivo già allenato.
Lei ha lavorato anche con registi quali Walter Pagliaro (Il principe di Homburg di Kleist, 1982), Luca Ronconi (Le due commedie in commedia di Andreini, 1984), Massimo Castri (Urfaust di Goethe, 1985), Luigi Squarzina (I Sette contro Tebe di Eschilo, 1992) e Franco Branciaroli (La dodicesima notte di Shakespeare, 1995): quali analogie e differenze trova vi siano tra ciascuno di loro?
È difficile dire le differenze fra l’uno e l’altro: indubbiamente sono tutti segnati da un accordo incredibile con me – pur essendo abituato soprattutto con Scaparro, che mi lasciava la mano più libera e mi ha dato un po’ il compito di essere in un certo senso regista di me stesso. Castri, Ronconi e Squarzina erano registi molto impositivi: volevano assolutamente che si facesse quello che intendevano loro. Quindi per me è stata un esperienza sempre nuova ma molto bella, perché evidentemente ho sempre avuto bisogno di un padre: con questi registi c’era il piacere di sentirsi forzato a sperimentarsi maggiormente, però sempre con grande sintonia; con Ronconi non c’era momento in cui si finiva una prova senza il bacetto di approvazione. Walter Pagliaro invece voleva fare Il principe di Homburg con me da tanto tempo: poi c’è stato qualcosa al momento che contrastava con la sua idea della fisicità di Homburg. Chissà come mi vedeva: eppure mi conosceva da tanti anni. Ero troppo muscoloso per lui, e ogni tanto mi diceva: “Se ti potessi cambiare un po’ di spalle…”. Io gli rispondevo: “Guarda, Walter: è impossibile che mi tagli le spalle: devi per forza accettarmi come sono”. Fu uno spettacolo sempre in clima di leggera diffidenza, ma tutto sommato era un regista di grande sapienza: tuttavia Gianni Santuccio era un po’ capriccioso nel ruolo del Principe elettore, rovinando leggermente il clima di intesa; per cui non ne ho un ricordo magnifico, pur essendo uno spettacolo di pregio. Franco Branciaroli lo conosco dalla scuola del Piccolo che eravamo ragazzi, per cui è stato un gioco lavorare insieme. Siccome alcuni anni prima avevo già fatto La dodicesima notte diretta da Aldo Trionfo – in cui facevo la parte del fool, mentre Malvolio era Glauco Mauri – , non mi sarei divertito a fare lo stesso ruolo anche con Franco: quindi lui fece il fool e io Malvolio, esaudendo così il mio desiderio di fare tutti e due i ruoli più divertenti della Dodicesima notte.
Cosa L’ha spinta ad autodirigersi nell'Edipo, riscritto da Renzo Rosso (1991), e in Tutto per bene, una commedia in tre atti tratta dall'omonima novella di Luigi Pirandello (1999)?
Perché si trattava di testi di cui ero talmente innamorato che – avendone un idea ben precisa – non mi andava che un altro pur valente regista avesse delle intuizioni diverse che potessero prevalere sulle mie: ciò nonostante è stato molto difficile autodirigermi. Essendo il protagonista, avevo un giovane molto intelligente che mi faceva da controfigura mente montavo la scena: dopodiché vi salivo per farla mia. A volte c’erano anche contrasti con gli attori, perché erano abituati con l’assistente durante il montaggio: sdoppiarsi in questo modo – oltre che fisicamente – è molto difficile psicologicamente e mentalmente.
Che bilancio trae della Sua vita personale e professionale?
Meglio professionale che personale: fino a un certo punto, perché si stava meglio prima dell’arrivo della scioccheria televisiva nazional-popolare. Non posso che essere ampiamente soddisfatto della mia carriera: quanto alla vita, non è detto che vadano di pari passo. Ho dovuto affrontare un divorzio, nonché la terribile morte di un figlio che mi ha molto allontanato anche dalla professione e distolto dalla vita stessa: ciò mi dà un forte senso di solitudine rispetto a quelle che erano le mie aspirazioni private.
Ha qualche progetto per il futuro?
Sempre meno, pur se – nonostante l’età – io mi sento ancora fortissimo: purtroppo è un mestiere ormai episodico. Un tempo la stagione cominciava a ottobre e finiva a maggio: adesso – se inizia a gennaio – è una grazia se si conclude a febbraio; spesso finisce a gennaio stesso. Ormai il teatro ha uno spazio marginale rispetto alla popolarità catodica: un tempo era la forma più alta di arte recitativa; mentre adesso sembra un po’ messo in castigo, senza averlo meritato.