Roberto De Simone: “La mia ricerca etnomusicale e antropologica, nel segno della più autentica tradizione partenopea”

Roberto De Simone: “La mia ricerca etnomusicale e antropologica, nel segno della più autentica tradizione partenopea”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
Il grande regista e musicologo napoletano rievoca approfonditamente le principali tappe che ne hanno scandito l’eclettica carriera: sempre volta ad una puntigliosa riscoperta e rivalutazione delle tradizioni campane più genuine.
 
 
Lei ha studiato presso il Conservatorio di Napoli, debuttando come pianista a quattordici anni con l'Orchestra del Conservatorio: come ricorda questi Suoi inizi?
Come un momento in cui il Conservatorio di San Pietro a Majella era forse il primo d’Italia: connotato da un altissima scuola di pianoforte che non aveva simili in Europa, nonché ancora un ottima scuola di composizione.
 
 
Cosa L’ha poi spinta a dedicarsi alla ricerca etnomusicologica e antropologica, imponendosi all'attenzione del pubblico con La Gatta Cenerentola (1976), Mistero Napoletano e Opera buffa del venerdì santo, spettacoli dal serrato ritmo teatrale che coniugano la musica popolare napoletana – liberamente rielaborata – con soggetti della tradizione partenopea medesima?
 
Il mio interesse per le tradizioni fu determinato dalle inchieste del De Martino sul tarantismo in Puglia: come pianista e compositore, io avevo già subìto la delusione dall’attività musicale di carattere ufficiale, che mi destinava a un attività cortigiana di pianista adibito a ripetere il repertorio nei concerti per un pubblico borghese e d’altro canto – come compositore – a essere inserito nel novero dei tendenzialmente indirizzati alla scuola post schönberghiana  e weberniana di carattere accademico. Guardando alle istigatrici pubblicazioni del De Martino – in cui si denunciava la necessità di indagare le tradizioni orali non solamente mediante la notizia storica, ma anche attraverso l’indagine dal vivo sul campo – , il primo impatto con queste nuove teorie fu quello di mettermi alla ricerca di musiche di tradizione orale non desunte da documenti scritti, ma direttamente attinte alla fonte: su un'altra considerazione determinante del De Martino – in cui si affermava il bisogno di indagare laddove possibile sulle tradizioni non attraverso la testimonianza posteriore, ma direttamente nel momento in cui erano proposte alla comunità – , la mia analisi s’indirizzò sul campo in momenti in cui questo era funzionale al rito. Così mi determinai a percorrere le vie meridionali – e in particolare della Campania – in occasione di date rituali in cui si effettuavano i canti nel momento in cui erano funzionali alla celebrazione di una liturgia e al contatto con la comunità: da queste indagini nacque poi la mia partecipazione al folk revival – attivato un po’ in tutto il mondo da Bob Dylan e Joan Baez, nonché dalle determinanti ricerche di Alan Lomax. Per cui – in base alla formazione di un gruppo vocale e strumentale denominato Nuova Compagnia di Canto Popolare – sconsigliai i giovani attigui a siffatta reviviscenza di rieseguire canti popolari autentici, in quanto questi hanno assolutamente bisogno di un connotato stilistico che un giovane di altra cultura non può avere nemmeno se si limita a imitare a pappagallo quello che ha sentito: perciò la ricerca fu effettuata con documenti storici rilevati da diverse biblioteche d’Europa – in particolare da Parigi e Londra, nonché dalla Germania e perfino dalla Russia – , allo scopo di raccogliere testimonianze di stampe napoletane del Cinquecento. Organizzai il revival sulla base dei documenti storici rieseguiti con uno stile non accademico, ma molto vicino a un folk urbano: forse allo stesso modo di quello che in Inghilterra connotava il gruppo dei Beatles, perché anche lì è stata fatta un operazione del genere – non sulla base di un repertorio di stile orale, ma con parecchie influenze di antichi canti che si ritrovano ancora successivamente. Quando ritenni ormai conclusa la fase operativa della Nuova Compagnia di Canto Popolare, mi rivolsi a un mondo onirico della tradizione come quello favolistico: era necessario attivare una nuova forma melodrammatica che – riferendosi al mito – coniugasse il canto allo stesso modo del melodramma; sfuggendo a un teatro di tipo eduardiano, ma senz’altro ancorato a uno stile assolutamente rituale di carattere mitologico con spettacoli quali sono stati appunto La Gatta Cenerentola, Mistero Napoletano e Opera buffa del venerdì santo.
 
 
Cosa possiamo trovare della Sua costante artistica nelle opere successive Requiem in memoria di Pasolini, Mistero e processo di Giovanna d’Arco (1989) e Il cunto de li cunti (1993)?
 
Diversi indirizzi e intenti mi hanno spinto a comporle: il Requiem in memoria di Pasolini coniugava una nuova forma musicale e compositiva, in cui era presente la commistione tra l’impiego di un orchestra sinfonica, di un coro di formazione accademica e di un gruppo di musica rock capeggiato da James Senese; nonché di un gruppo di vocalisti che io avevo scelto, dei quali facevano parte anche alcuni musicisti che avevano partecipato alla rappresentazione della Gatta Cenerentola. C’era dunque una commistione di musica colto-sinfonico corale desunta da musica scritta, senza precedenti: la cifra estemporanea e rock di James Senese è quella vocalistica che già aveva perseguito la Nuova Compagnia di Canto Popolare; ne deriva una composizione di carattere non solo polistilistico, ma anche poliritmico. Mistero e processo di Giovanna d’Arco fu una rappresentazione relativa al coacervo tra il cattolicesimo popolare e quello ufficiale: questo ha sempre segnato un dissidio e uno scontro attraverso tutti i secoli, di cui il processo di Giovanna d’Arco mi sembrava un momento esemplare. Per cui si miscela tale conflitto tra l’universo magico-religioso – espresso dalla figura di Giovanna d’Arco – e il processo per eresia, indotto dal Tribunale dell’Inquisizione capeggiato dal vescovo Pierre Cauchon: lo scontro è fra una ragazza veggente e un vescovo della Chiesa. Alla luce della lettura estetica dell’opera Il cunto de li cunti – e sulla scorta delle nuove informazioni culturali derivanti dalle teorie di Ernesto De Martino – , volli constatare quante delle favole di Giambattista Basile pubblicate nel 1634 fossero ancora presenti nella tradizione popolare: per cui condussi un indagine nell’Alta Irpinia – tra Montemarano, Zungoli, Avellino, Bagnoli Irpino e altri luoghi – atta a raccogliere testimonianze orali rispetto alle fiabe che egli aveva già prodotto, e constatai che erano circa il cento per cento. Come vede, la tradizione rappresenta nei secoli la trasmissione equivalente della stessa scrittura: questo mi confortava per quel che riguarda la mia attività di ricercatore tra scrittura e oralità.
 
 
Cosa L’ha invogliata a firmare in veste di regista fortunate edizioni di Flaminio e Lo frate 'nnamorato di Pergolesi e Nabucco di Verdi?
 
Vi sono diversi interessi: Li zite 'ngalera – un opera rappresentata al Maggio Musicale Fiorentino – è stata l’inizio di questa mia indagine successiva, basata sulla consapevolezza della grande differenza tra Scuola musicale napoletana e Scuola musicale tedesca; per cui la contrapposizione Napoli-Germania aveva prodotto da un lato il melodramma italiano e dall’altro la letteraria scrittura formale e strumentale della Scuola tedesca. Poiché la Scuola napoletana era connotata da una speciale attenzione per lo stile di canto – veda ad esempio la Scuola dei castrati – che non aveva simili in Europa, la consapevolezza di questa diversità storica mi ha indotto ad approfondire i rapporti tra la scrittura napoletana e quella tedesca: per cui ho voluto verificare che differenza c’era tra Haydn e Paisiello, nonché tra Pergolesi e Bach. Queste opere segnano proprio l’indirizzo di tentare di riportare questa problematica a una risposta coerente: non basata solamente sull’estetica dei documenti, ma anche sulla loro possibilità di riprodursi attraverso i secoli.
 
 
Dal 1983 al 1987 Lei è stato direttore artistico del Teatro San Carlo di Napoli, mentre nel 1995 – anno in cui ha composto L’opera dei centosedici – è stato nominato direttore del Conservatorio: come ha vissuto questi incarichi così prestigiosi che Le furono assegnati?
 
Il primo incarico lo accettai stimolato dal sindaco Maurizio Valenzi, un uomo di sinistra molto preparato culturalmente: a condizione che – mediante l’attività artistica del San Carlo – potessi contribuire a un rilancio della stessa Scuola settecentesca napoletana. Valenzi mi promise il suo appoggio, essendo oltretutto presidente del consiglio d’amministrazione del San Carlo: il mio rapporto col San Carlo è stato connotato dall’immediato allestimento della Serva padrona di Pergolesi. Fu una nuova lettura: approntai la partitura con due artisti d’eccezione – uno di Napoli e l’altro di Benevento – e una buona direzione d’orchestra, e ci fu quest’esecuzione anche a Bonn. Successivamente c’è stata appunto l’edizione del Flaminio, che non era stato più eseguito dai tempi della prima rappresentazione: fu una riscoperta, perché – portato al Carnevale di Venezia – ottenne uno strepitoso successo, venendo rappresentato anche a Parigi. Poi ho messo in scena altre opere napoletane di Jommelli: la mia direzione è stata connotata da quest’attività rivolta al revival della Scuola napoletana di canto e di teatro. Ad accettare quella del Conservatorio fui invece stimolato sia dal sindaco Bassolino che dall’avvocato Gerardo Marotta degli Studi Filosofici: quell’anno c’erano state le dimissioni del direttore, e improvvisamente Marotta mi chiese perché non andassi io a dirigerlo. Io risposi che non avevo i documenti in regola, perché non avevo svolto attività didattica ma solamente artistico-culturale: possedevo titoli di musicista e compositore, ma non formativi. Da questo punto di vista intervenne lo stesso avvocato Marotta – che è un esperto di leggi – , affermando: “La legge prevede un incarico per chiara fama: ne parlerò al ministro della cultura Lombardi, e credo che lui possa disporre un esecuzione di mandato relativo alla nomina di un direttore per chiara fama”. Nell’accettare l’incarico, avevo stabilito proprio con Lombardi che avrei immediatamente messo straordinaria attenzione alla biblioteca del Conservatorio: uno dei più ricchi accumuli storici del mondo, contenente migliaia e migliaia di documenti. Questi però erano nelle mani di un unico bibliotecario, per cui la biblioteca versava in gravi e disagiate condizioni: la mia direzione è stata connotata dal fatto che immediatamente chiesi al ministero un indagine governativa statale sulle sue condizioni e sulla necessità urgente di intervenire. Fu aperta una commissione stabilita appunto da me, Riccardo Muti e il musicologo Francesco Degrada: vennero destinati nuovi fondi per la biblioteca, pur non giungendo a ottenere una sua autonomia con l’ausilio per lo meno di tre direttori; ma il rinnovamento della catalogazione fu determinante per salvare uno degli accumuli più importanti d’Europa.
 
 
Cosa L’ha persuasa nel 2007 a pubblicare Novelle K 666?
 
Mozart è una figura eccentrica della cultura musicale: senz’altro è un musicista temprato ad una scuola ferrea di contrappunto, ma più italiana che tedesca. La sua attenzione alla scuola di Padre Martini e a quella napoletana lo avevano commutato come uno dei musicisti più bizzarri del Settecento: c’è infatti in Mozart la necessità di riferirsi alle strutture stilistiche e poetiche della Scuola napoletana, senza cui non sarebbe nato il Don Giovanni. Quest’opera è proprio la derivazione diretta dall’attenzione che Mozart aveva innanzitutto per Paisiello – di cui era anche conoscente – e poi di Cimarosa: con loro aveva avuto rapporti nella sua frequentazione di pubbliche manifestazioni in onore dell’elezione del nuovo imperatore, per cui Mozart aveva prodotto La clemenza di Tito e Cimarosa Il matrimonio segreto. Contemporaneamente Mozart portò a Vienna il Concerto per pianoforte in Re minore: una splendida composizione formalmente ineccepibile, ma densa anche di novità stilistiche. Egli è il ponte ideale tra Napoli e Vienna: da questo punto di vista, la Scuola napoletana e quella tedesca si sono incontrate. Dopo di lui non si è mai più rinnovata questa stretta di mano: il periodo romantico è stato poi connotato dall’altissima figura beethoveniana e – dal punto di vista melodrammatico – dalla riforma di Wagner, ma non c’entrano nulla con la Scuola di Napoli. La mia attenzione per Mozart è derivata da questa sua napoletanità, per cui mi sono sentito in diritto di scrivere delle novelle sulla base di rapporti storici che effettivamente egli ha avuto con Napoli.
 
 
Che bilancio trae oggi della Sua vita privata e professionale?
 
Privata non lo posso dire, perché riguarda me: parlando della mia vita artistica, la posso considerare un fallimento perché Napoli è connotata da un degrado culturale spaventoso, del quale vi sono tracce visibilissime nella disastrosa gestione politico-artistica del Teatro San Carlo e in quella altrettanto pessima del Teatro Mercadante. L’approssimazione culturale e artistica segna tutto ciò che riguarda la presunta e immaginaria tradizione napoletana: da questo punto di vista ciò che rimane sono le mie opere scritte, che mi vedono attualmente in approdo ad una pubblicazione – commissionatami dalla Treccani – di alcune fiabe del Cunto de li cunti e della stessa figura storico-artistica di Giambattista Basile che verrà tradotta in cinque lingue.
 
 
Ha qualche progetto per il futuro?
 
Alla mia età non si possono fare progetti: mi trovo in un tempo dove la tappa del limite può sorprenderci da un momento all’altro, per cui siamo nelle mani da un lato della Divinità e dall’altro del gusto degli Astri.

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