Storie dal genere umano: lo one woman show di Gisella Cesari
di Alessandro Ticozzi
“Se riuscissimo a metterci nei panni degli altri tanto da sentirli come fossimo noi, non avremmo più bisogno di leggi o regole. Perché agiremmo per il sentire comune e quindi non faremmo mai qualcosa contro qualcun altro che sentiremmo come fosse noi: l’esercizio di mettersi nei panni degli altri ci può far diventare veramente una società migliore”.
Questa ficcante riflessione sul proprio mestiere di Elio Germano – uno dei nostri attori più interessanti del nuovo millennio – reputo possa assai calzare (sempre per rimanere in tema) anche per lo spettacolo teatrale targato Sinnombre Storie dal genere umano, che il regista Danilo Caiano affida completamente all’estro recitativo della sodale Gisella Cesari: ottima scelta, dal momento che l’emergente tarantina regge pienamente per quell’ora buona di durata senza alcun calo, passando da un personaggio all’altro – femminile o maschile che sia – con eccezionale duttilità e naturalezza.
Ignuda timidamente accovacciata nella penombra della ribalta – quasi come un feto neonatale in procinto di venire al mondo – , la Cesari indossa la biancheria intima per poi letteralmente “vestire i panni” (sparsi sulla scena, dopo averli tirati fuori dalla valigia) di tutti i caratteri che ella riesce sapientemente a far vivere sul palco. Salvo gli struggenti profili introspettivi della ragazza madre tossicodipendente e del becchino a suo agio unicamente a contatto con la morte per traumi familiari risalenti all’infanzia, gli altri sono tutti resi in chiave fermamente grottesca: dalla star cinematografica vanesia al calciatore (apparentemente) omofobo, dal “colletto bianco” in cerca di trasgressive evasioni notturne come il Griffin Dunne dello scorsesiano Fuori orario alla nevrotica donna in carriera che esplode in tutte le proprie frustrazioni represse nel pieno di un ingorgo (una sorta di controparte muliebre del Michael Douglas di Un giorno di ordinaria follia, per capirci) fino a svestirsi completamente; un nudezza stavolta frontale e sfrontata – dirompente anche in virtù di una fisicità tipicamente mediterranea caratterizzante la Nostra – con cui si chiude il cerchio, e con esso pure la messinscena.
Aiutata efficacemente in tali “cambi” da un accorto gioco di luci sceniche, già affiora nella giovane pugliese (ma romana d’adozione) tutta la classe e la padronanza di un autentica signora delle scene, dotata di mirabili capacità mimico-gestuali: merito sicuramente anche di una solida foggiatura off che va dal teatro di ricerca di un riconosciuto maestro quale Giancarlo Sepe al ciclo di pellicole sperimentali che l’ottuagenario tedesco Eckhart Schmidt sta girando da tempo prevalentemente sul nostro suolo, avvalendosi soprattutto proprio di giovani talenti femminei di formazione drammatica.
Un astro nascente che auspichiamo possa concretizzarsi appieno in una fulgida carriera (e non solo per via della fiammante chioma riccioluta); uno spettacolo meritatamente premiato dal successo di critica e pubblico che ci auguriamo di rivedere nei teatri non appena la pandemizzata situazione lo renderà possibile.