Virginio Gazzolo: “Risucchiato dal sacro fuoco dell’arte scenica, con il Centouno sempre nel cuore”

Virginio Gazzolo: “Risucchiato dal sacro fuoco dell’arte scenica, con il Centouno sempre nel cuore”

a cura di Alessandro Ticozzi
 
Il grande attore e regista ripercorre i punti salienti della propria carriera teatrale.
 
 
Quando ha scelto d’intraprendere questo mestiere, come ha vissuto l’esempio di eccellenti caratteristi e doppiatori quali furono Suo padre Lauro e Suo fratello maggiore Nando?
 
Sono nato in una famiglia di attori: di teatro se ne discuteva e lo si seguiva parecchio – sia andandoci che vedendolo in televisione – , e quindi avevo una radice dentro il teatro stesso. Tuttavia il momento in cui l’ho scelto è stato relativamente casuale: pur frequentando – per mia formazione più che per diletto – il Centro Universitario Teatrale, ero molto impegnato nello studio della Facoltà di Medicina. Vedendomi in scena alcuni amici che producevano teatro, mi hanno proposto una scrittura per un testo – tra l’altro molto bello – che non è mai stato ripreso, Il più gran ladro della città di Dalton Trumbo, con la regia di De Bosio. Ho accettato: così il mio primo ruolo è stato quello di un centenario che aveva finto di essere morto per poi risuscitare. Erano i primissimi anni Sessanta: allora per me ciò significava anche guadagnare qualche lira – cosa che non mi dispiaceva, dal momento che nel frattempo avevo messo su famiglia. Passare dalla fase amatoriale a quella professionale è stato abbastanza casuale: da quella prima scrittura me ne sono state proposte altre. Il tempo che dedicavo allo studio della medicina si riduceva perché m’impegnava sempre di più il teatro: quindi – più che una scelta – pian piano sono stato io ad essere risucchiato dal teatro.
 
 
Cosa L’ha spinta a fondare nel 1965, con Antonio Calenda, il Teatro dei Centouno a Roma?
 
La voglia di rompere i rigidi schemi di quelle divisioni che nel teatro adesso sono crollate, ma allora erano ben presenti: siccome in qualche modo la cultura precede da sempre la politica, eravamo già in clima sessantottino. Non che si volesse sposare una qualche ideologia, ma si sentiva il bisogno di rifiutare i padri e cercare di crescere autonomamente: è stata quest’atmosfera che ci ha spinto a metterci insieme per fondare questo piccolissimo Teatro dei Centouno, perché centouno erano i posti a sedere. L’esperienza è durata un paio d’anni e non di più, dopodiché ognuno di noi ha proseguito per la sua strada: l’abbiamo vissuta come una bella occasione di sperimentarci.
 
 
Prevalentemente interprete di opere contemporanee, quale emozione Lei ha provato nel vincere il premio San Genesio per il Lutero di Osborne?
 
È stata una grande soddisfazione, però siamo sempre in quegli anni incandescenti: infatti nel ’67 ho fatto il Lutero, e poi nel ’68 ho vinto il premio. Lo spettacolo andava molto bene: avevamo tante richieste di programmazione. Io e il regista Beppe Menegatti eravamo i capocomici: quindi anche i responsabili economici dell’impresa. Dopo un inizio stentato al Parioli, abbiamo avuto prenotazioni in tanti altri teatri, come il Donizetti di Bergamo e il Piccolo di Milano. A quel punto gli attori decidono di entrare in sciopero: ciò riguardava soprattutto l’annoso problema del “voce-volto” – cioè la richiesta che il loro lavoro impiegato in un film non dovesse essere doppiato, in modo che solo attori professionisti potessero svolgerlo. C’era qualcosa di retrogrado in questa situazione, ma anche di vitale: mentre si tornava in pullman da una replica, gli amici attori che mi accompagnavano mi comunicano che – dal giorno dopo – loro rispettavano lo sciopero a tempo indeterminato dichiarato dai sindacati di categoria, sospendendo quindi la prestazione. Quindi abbiamo dovuto sciogliere la compagnia, ed è stato poi impossibile riprendere l’impresa: pertanto questo premio per me è stata almeno una rivalsa personale – pur se non economica, avendoci chiaramente perso anche dei soldi.
 
 
Cosa L’ha indotta nel 1971 a debuttare come regista con Vita di William Shakespeare di Dallagiacoma?
 
Pure in questo caso fui risucchiato: ero scritturato allo Stabile di Torino, dove si doveva fare Fiori rossi al Martinetto, un testo che parlava degli anni della Resistenza  nel capoluogo piemontese. La situazione era diventata calda perché si mettevano in scena personaggi-mito ancora vivi e vegeti che minacciavano azioni contro i dirigenti del Teatro Stabile, i quali decisero di non andare in scena con quello spettacolo. Ma la compagnia era già convocata, e loro dovevano comunque presentare uno spettacolo italiano nel borderò: pertanto mi proposero se me la sentivo di sostituire la prestazione da attore che avevo nello spettacolo originario con quella di regista di quest’altro. Non so perché abbiano pensato a me, ma comunque anche stavolta non è stata una scelta bensì un qualcosa che mi sono trovato davanti: dopo breve riflessione – con lo stesso spirito con cui ho partecipato alla fondazione del Centouno – , ho pensato di provare anche la regia. Mi sono trovato benissimo, anche perché erano tutti amici: tra l’altro quella è stata l’occasione in cui ho conosciuto Angela Cardile, che sarebbe poi diventata mia moglie.
 
 
Da Così è se vi pare di Pirandello (1979) a Il padre di Strindberg (1980), da Kean di Dumas (1982) a Capitan Ulisse tratto da Alberto Savinio (1991), quale comune denominatore di ricerca scenica possiamo trovare nelle Sue interpretazioni di maggior rilievo?
 
Non c’è un comune denominatore: ogni volta che mi sono trovato di fronte a una proposta di lavoro o alla realizzazione di una mia idea, mi ha sempre attratto ricominciare da capo, vedendo cosa può succedere e cercando di non avere nessun pregiudizio o schema precostituito. Tuttavia ciascun spettacolo m’interessa solo se parte da uno zero assoluto per cercare di trovare qualche elemento di necessità: quelli da Lei menzionati erano tutti testi o situazioni che mi appassionavano, giacché m’intrigava lavorare con registi come Castri per Così è se vi pare, Trionfo per Kean, Missiroli per Capitan Ulisse e la Mezzadri per Il padre. Sono tutte cose bellissime che ho fatto molto volentieri: non hanno richiesto un particolare travaglio di scelta da parte mia.
 
 
Che bilancio trae della Sua vita privata e professionale?
 
Continua in serenità il sodalizio – anche professionale – con Angela: cinquant'anni "d'oro"! Per il resto, non mi piace trarre alcun bilancio: aspetto perlomeno un'altra ventina d’anni prima di farlo…
 
 
Ha qualche progetto per il futuro?
 
Ho sempre dei progetti, anche se non ho più voglia d’impegnarmi per lunghi mesi con le compagnie di giro: ormai preferisco cose che accadono sporadicamente, ma sempre interessanti. Tante nicchie di lavoro che in qualche modo mi riportano non molto lontano dal Centouno.

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