La burning question del rapporto arte-potere: La Torre D'Avorio

La burning question del rapporto arte-potere: La Torre D'Avorio
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Collaboratore
Titolo Spettacolo: 
La Torre d'Avorio di Ronald Harwood regia Luca Zingaretti

"Taking parts" é il titolo originale dello spettacolo di Ronald Harwood arrivato sulle scene del Morlacchi con il più metaforico titolo "La torre d'Avorio", nella traduzione italiana di Masolino D'Amico. Protagonista Luca Zingaretti nelle vesti di una sorta di "commissario" che ben poco ha a che fare con il camilleriano Montalbano. Siamo nella Berlino dell'epoca del processo di Norimberga, dunque al tramonto del delirio nazista: periodo particolarmente critico dal momento che il controllo delle forze alleate vuole epurare la Germania dall'orrore hitleriano. Proprio di questo si occupa il maggiore dell'esercito americano interpretato da Zingaretti; ma in questa caccia agli ex nazisti ora negazionisti (tutti affermano di non essersi mai tesserati nel partito di Hitler), il maggiore Arnold ha un obiettivo preciso ed ambizioso: smascherare l'acclamatissimo direttore d'orchestra Wilhelm Furtwängler (peraltro personaggio realmente esistito e controverso), da tutti rispettato ed unanimemente considerato antihitleriano, addirittura salvatore di molti ebrei. Persino David, il suo collaboratore nelle indagini, sembra avere una venerazione per questa stella della musica internazionale, per non parlare della sua segretaria. Il problema è che il compito di Steve non è quello di smascherare un furbo ipocrita qualunque: ci si trova davanti ad interrogativi ben più profondi e complessi. L'arte davanti alla storia, l'arte nella storia, che ruolo ha? Che ruolo ha la bellezza? È possibile giustificarne la strumentalizzazione? Il maestro è solo un codardo che ha dovuto (come tutti del resto) collaborare? Era un convinto filohitleriano che ha prestato la sua musica anche per cerimonie in onore del führer? O solo un uomo oltremodo ambizioso, disposto a tutto pur di non farsi scavalcare dal giovane e promettente Karajan? Le mille ipotesi dell'americano maggiore Arnold, che odia la musica classica ma soprattutto è deciso a fare giustizia perche ancora perseguitato dagli incubi degli orrori della IIGM, si scontrano con l'unica giustificazione che usa Furtwängler: è rimasto in Germania per amore della sua gente, per non fuggire vigliaccamente evitando, appunto, di "schierarsi", ma per continuare a tenere alto il nome della musica tedesca, convinto che l'arte sia qualcosa che vada al di la del pensiero politico, ispirando nell'uomo il soffio "mistico" della libertà, della bellezza e della dignità. Un finale aperto lascia spazio alla riflessione su quanto il rapporto arte-politica sia complesso, ma anche su quanto l'uomo sia volubile, e si trovi costretto, pur essendo ispirato dai più alti ideali, a rispondere alle proprie pulsioni. Entrambi i protagonisti sono schiavi di questo dualismo: l'obiettivo di Arnold di certo gli fa onore, ma l'acredine con cui si attacca al caso Furtwängler, la testardaggine con cui ci si accanisce la dicono lunga su quanto sia accecato dalla voglia di fare uno scandalo internazionale. D'altra parte anche il maestro Furtwängler, emblema dei più alti ideali artistici e dell'uomo che ha sfruttato il suo prestigio per fare del bene, ha i suoi vizi ed i suoi lati oscuri: un numero indefinito di figli illegittimi, favori e conoscenze nelle alte sfere del partito nazista...
Sondare la biografia dell'autore, Harwood, è fondamentale per comprendere le sensibilità che lo hanno portato a scrivere un testo come Taking Parts: ebreo, amante della musica, americano di origine sudafricana, ha tutti gli elementi per avere un molteplice punto di vista sulla storia, cosa fondamentale per la riuscita di un testo.
Nella cornice assolutamente fredda del grigio studio "inquisitorio" di Arnold , sulle note ora di Beethoven ora di Bruckner, il testo viene messo in scena da uno Zingaretti bravo, ma che sembra non fare più del proprio dovere, e da un ineccepibile Massimo de Francovich, che ha il contegno e l'aplomb assolutamente azzeccati al suo personaggio. Sulla scena anche un convincente Peppino Mazzotta, e altre due attrici ed un attore le cui interpretazioni decisamente non lasciano il segno. La regia è dello stesso Zingaretti: un bel testo con un bel potenziale, ma non si capisce se l'idea non sia stata ben sviluppata dallo sceneggiatore premio Oscar Harwood o dalla regia di Zingaretti.
Resta la vaga impressione che manchi quel qualcosa in più...