Le baruffe chiozzotte
a cura di Silvia Pisacane.
Lo scorso weekend è andato in scena al Teatro Morlacchi di Perugia “Le baruffe chiozzotte” di Carlo Goldoni, regia di Paolo Valerio e consulenza drammaturgica di Piermario Vescovo interamente in gergo veneto dell’epoca.
Opera corale, ambientata nella città di pescatori di Chioggia. La commedia mette in scena - come genere d'ambiente popolare ma anche di conversazione - le baruffe amorose di un gruppo di popolani inseriti in un contesto familiare e sociale particolarmente articolato e mossi da sinceri affetti dell'anima che bene descrivono una visione della coralità della vita.
Ad essere rappresentate sono figure del più basso strato sociale - i pescatori e le donne che stanno loro intorno - ma non per questo privi di personalità. Ogni personaggio nella sua semplicità risulta colorato e vivace e si esprime come può. Da notare infatti non solo le battute in dialetto locale ma anche il linguaggio del corpo, la prossemica e i costumi, espressione di una rappresentazione sociale umile ma onesta. Si tratta di un capolavoro “naturale” tanto che tutti i ceti dell’epoca andavano a Venezia per applaudire lo spettacolo.
Lo spunto iniziale alla commedia viene, com'è del resto anticipato dal titolo, da una baruffa scatenata da un gesto di gelosia. La vita quotidiana, vissuta per strada, si svolge seguendo dei ritmi che hanno un preciso significato. Ogni azione inconsueta infatti non sfugge allo sguardo della gente che basa la propria esistenza sulle tradizioni e sul rispetto degli usi e costumi condivisi.
Il primo atto è particolarmente dominato da personaggi femminili che tra ricami e pettegolezzi non perdono occasione per azzuffarsi. Il ruolo da prima donna non ha epoca. L’ambizione più grande per una nubile è maritarsi in età giovane con un uomo che possa permettersi una vita dignitosa. Non solo, bisogna rispettare rigorosamente la gerarchia familiare. Le donne adulte già sposate invece aspettano i loro marti che tornano dal mare portando non solo qualche dono ma anche più serenità in casa. Le lunghe attese vengono vissute con preoccupazione perché ogni viaggio potrebbe non avere un ritorno. Il momento più bello è ritrovarsi con gioia celebrando la vita.
Emozioni contrastanti danzano sul palco proprio come nella vita. Nei ceti più bassi anche il modo di discutere è più vivace ed ogni sentimento viene amplificato. Il linguaggio utilizzato nello spettacolo è simbolo di una società ancora “grezza” sia nei gesti che nel pensiero. Risulta complicato (a tratti) seguire ogni battuta del dialetto vento di fine ‘700 ma le sequenze delle scene sono chiare ed esplicative. I movimenti gestiti da Monica Codena sono una vera e propria coreografia.
Nel secondo atto anche la presenza maschile entra in campo più vigorosa, ognuno vuole dimostrare la sua forza e difendere le ragioni delle femmine che intanto avevano messo tutti contro tutti.
“Chi dice donna dice danno!!!” esclama per tre volte un pescatore.
Dove la legge di strada non arriva, l’uomo di giustizia può. Così il nobile Isidoro, l’unico a parlare correttamente, inizia una serie di interrogatori per capire come sistemare la vicende di paese. Seguono risposte goffe e imbarazzanti tanto che il pubblico non può trattenersi dal ridere.
Alla fine il buon senso e i valori forti delle famiglie unite trionfa sulle baruffe rumorose dei giorni precedenti. Vengono annunciati ben tre matrimoni, è tempo di festeggiare sorvolando su invidie e incomprensioni.