L'ordinaria comicità tragica di periferia: Ben Hur

L'ordinaria comicità tragica di periferia: Ben Hur
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Collaboratore
Titolo Spettacolo: 
Ben Hur - una storia di ordinaria periferia. Di Gianni Clementi, regia di Nicola Pistoia

"Gli spettacoli sono come i figli: uno li fa sperando che vengano su bene". E questo spettacolo di certo sta crescendo bene, arrivato già alla maturità della 300ª replica e pronto al matrimonio con il cinema.
Ben Hur è la prova che se si lavora con intelligenza si può portare in scena anche la realtà quotidiana meno originale perché parte del vissuto di tutti. Ma soprattutto il duo comico Triestino-Pistoia, avvalendosi del contributo femminile di Elisabetta de Vito , mostra come si può far ridere con intelligenza, offrendo una serata non di semplice divertimento, ma di speciale riflessione.
Ben Hur racchiude in tutte le sue sfaccettature il dramma moderno del precariato sociale, del carattere un po' opportunista un po' di cuore tipico di noi italiani, delle speranze e della nostalgia di chi si vede costretto a lasciare il proprio paese in cerca di fortuna. Sembrerebbe una trama trita e ritrita, e proprio qui sta la bravura dell'autore - Gianni Clementi- e ovviamente degli interpreti. Nicola Pistoia è perfetto nei panni di Sergio, ex stuntman che si ritrova ad arrancare tra affitto, figli ed ex moglie recitando la parte di centurione romano davanti al Colosseo. Benché sia un personaggio standard, Pistoia non cade mai nella prevedibilità dei cliché, merito che peraltro ha in ugual misura il suo partner artistico Paolo Triestino, nei panni dell'altrettanto tipico personaggio di Milan, ingegnere bielorusso clandestino in Italia. Assolutamente ammirevole lo studio del linguaggio di questo personaggio, che sembra evolvere durante lo spettacolo; Triestino non si "finge" straniero dal pesante accento dell'est: lo è. Viene il dubbio che dietro alle sue battute, soprattutto al primo atto, non ci sia un copione scritto, dato che il personaggio fa di tutto per farsi capire, persino scoraggiandosi ed esultando quando ci riesce. Al secondo atto parla un italiano più comprensibile, palesemente appreso nel quotidiano, colorato da espressioni dialettali romane usate magari anche un po' a sproposito: un'evoluzione linguistica perfettamente realistica. Un'interpretazione assolutamente naturale e credibile, quella di Triestino, che supera ogni scimmiottamento dello "straniero"già visto.
Il punto di vista femminile è quello Maria, una divertente quanto profonda Elisabetta de Vito, che dà voce ad un'anima complessa come quella di una donna che si sforza di restare in equilibrio tra forza e tenerezza, audacia e semplicità, sensibilità e cinismo. Sarà lei a denunciare Milan, dopo che il fratello si è arricchito sul suo lavoro, fornendogli comunque appoggio e amicizia. Ma il gesto di Maria non è dettato dall'ignoranza e dal disprezzo dello straniero; è il gesto di una donna ferita, che ama e si sente tradita, meccanismo che scatena l'odio ed il cinismo più crudele verso chi stava solo cercando di fare del bene alla propria famiglia, ma è e sarà sempre un "intruso".
Il testo ha l'intelligenza di non raccontare una storia "perbenista", che indurrebbe il pubblico a schierarsi apertamente con il più debole, per lavarsi la coscienza dell'intolleranza che, fuori dalla sala, ci riguarda tutti. Nella sua successione di battute, il testo pone lo spettatore nella condizione di riconoscersi nella malinconia della canzone di Milan che ha nostalgia della sua terra, ma anche nella diffidenza e nell'opportunismo di Sergio, come pure nell'umiliazione di Maria, illusa e abbandonata.
Ed in questo gioco di ruoli, tra risate fragorose che quasi disturbano l'ascolto delle battute, il finale arriva come una coltellata, come un monito, ma privo di facili moralismi.
Bravi, spassosi e profondi.
"Adesso artornatevene a casa e arpensatece", ha detto il direttore artistico del teatro Mengoni di Magione a fine spettacolo, ed aveva ragione: serate come questa continuano anche a distanza di tempo a far sorridere e riflettere.