Morte, fede ed ironia: la pulp comedy Occidente Solitario

Morte, fede ed ironia: la pulp comedy Occidente Solitario
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Collaboratore
Titolo Spettacolo: 
Occidente Solitario di Martin McDonagh regia Juan Diego Puerta Lopez

È un teatro giovane a tutti i livelli quello in scena al Morlacchi in questi giorni: giovani gli attori, giovane il regista ma soprattutto giovane il drammaturgo. La compagnia degli Ipocriti (Claudio Santamaria, Filippo Nigro, Massimo De Santis e Azzurra Antonacci), sotto la direzione di Juan Diego Puerta Lopez, ha allestito per la prima volta in Italia il testo di un astro emergente della scrittura teatrale inglese e mondiale: Martin McDonagh, classe 1970, considerato il più grande drammaturgo inglese vivente.
Occidente Solitario è uno spaccato senza censure della società occidentale;
un panorama di solitudine e di cinismo, il nichilismo di un mondo tutt'altro che immaginario. I colori pulp di questo testo disegnano il nostro occidente con cruda ironia.
Una società individualista: nei pochi (quattro) personaggi vivono tutte le sfumature di una tendenza sociale che corre all'autodistruzione. Nonostante sentiamo come concrete le realtà umane che il testo ci presenta, è impossibile non inorridire davanti alla totale assenza di valori dei protagonisti. Due fratelli quarantenni, reduci dalla morte del padre (o meglio artefici di essa, uno attivamente, l'altro passivamente), vivono la loro quotidianità a livello quasi bestiale, indifferenti alle tragedie continue del loro paese e alle parole del loro amico padre Welsh (un Massimo De Santis che avrebbe potuto essere più intenso). Questi di certo non è un esempio di virtù, ma nella sua veste talare incarna i valori tradizionali della cultura occidentale (e soprattutto del cattolicesimo irlandese, denunciato nel suo essere ormai solo un vessillo identitario, sostenuto più come simbolo che come credo). Valori che comunque si dimostrano impotenti e insufficienti, messi in discussione persino da colui che dovrebbe trasmetterli agli altri. Valene e Coleman, chiusi in un perenne infantilismo e dediti ai soli bisogni fisiologici, mangiano e bevono continuamente e con facilità ricorrono all’aggressività più pericolosa per il solo gusto della violenza. C’è un che di bestiale nell’ossessivo voler “segnare il territorio” da parte di Valene, un Filippo Nigro sorprendente, che da al suo personaggio ritmi e movenze rallentate, tra l’autistico e l’ubriaco, quasi paradossalmente tenero in confronto al più “terreno” fratello Coleman. E’ Claudio Santamaria a vestirne i panni, un’irriverente e strafottente canaglia, si prende gioco quasi con sadismo del fratello, in una lotta continua che conosce una parentesi di tregua solo davanti al suicidio dell’amico prete. Ma anche questa tragedia sembra non scalfire eccessivamente i due fratelli, se non fosse per il ricatto morale che padre Walsh – ops, Welsh! – lascia in una lettera ai suoi amici. Investiti della responsabilità del destino dell’anima del prete suicida, Coleman e Valene fanno uno sforzo per andare d’accordo… ma il tentativo dura poco.
Sintomatico il décor in cui è racchiusa la messinscena: un unico ambiente, un stanza dal soffitto basso, zeppa di statuine della Madonna (48!!) che Valene quasi colleziona, emblema della vuotezza di fondamento della sua fede “tradizionale”, di copertina. Statuine naturalmente distrutte, alla prima occasione di dispetto, dal Coleman iconoclasta e più coerente con se stesso. In mezzo alle immagini sacre campeggia il fucile, emblematicamente vero fulcro della scena.
Ad una lettura superficiale il testo si dimostra ricco di spunti ironici e addirittura comici, ma il riso che scatena si trasforma immediatamente in una smorfia di amarezza: la storia avanza con la tensione della tragedia imminente che non arriva mai, ma che si lascia presagire ad ogni battuta. Il solo barlume di speranza sembra provenire dall’unica donna in scena, un personaggio che per oltre metà spettacolo non viene meglio identificato che col nome di Ragazzina, interpretata da Azzurra Antonacci. Ragazzina, si, la più piccola di tutti, eppure forse la più saggia, la più umana. Figlia di una società malata, ha però in se il seme della giovinezza che crede nel futuro, nella possibilità di una felicità e soprattutto nell’amore, quello che prova per il parroco padre Welsh. Anche se quest’innamoramento suona forse un po’ forzato a livello pratico, nella teoria del testo è sicuramente l’unica nota di dolcezza e positività di questo ritratto annichilente del nostro presente.