Se Amleto fosse napoletano: Hamlet Travestie #PdT14
I grandi testi della tradizione teatrale, i “classici”, hanno la meravigliosa capacità di risultare sempre attuali, sempre validi, diacronicamente e diatopicamente carichi di significato. Questa non è certo una novità; ma nel vasto panorama di riedizioni, rielaborazioni, riallestimenti dei classici, questo spettacolo ha una sua autonomia. I Punta Corsara presentano una riscrittura della vicenda del principe di Danimarca del tutto originale, e sorprendentemente azzeccata.Pescando nella tradizione più classica del teatro partenopeo, la farsa di Antonio Petito, ma anche in una meno conosciuta riscrittura parodistica settecentesca del capolavoro shakespeariano, Hamlet Travestie ci ripropone la tragedia del dubbio vestita con gli abiti eccentrici – per non dire kitsch – della Napoli contemporanea. Ne deriva una farsa tanto divertente quanto intelligente, e stupisce quanto la vicenda di Amleto riesca ad aderire all’immaginario napoletano, tradizionalmente popolato di sogni-visioni rivelatrici, di rapporti familiari complessi, “barbarici” quanto quelli della famiglia reale danese. Persino la macchina metateatrale, momento tra i più suggestivi dell’opera shakespeariana, si inserisce perfettamente in quel “grande teatro sempre aperto” che è Napoli. I drammi umani della tragedia classica si mescolano alla più tragica contemporaneità, fatta di paure, strozzini e omertà – sempre raccontata con la tipica schiettezza e autoironia partenopee – per interrogarsi sulle contraddizioni dei rapporti familiari e sulla condizione di sospensione e precario equilibrio delle giovani generazioni. Amleto, quello classico quanto quello contemporaneo, non riesce a distinguere la verità, ed è questa impossibilità di decifrare la realtà a renderlo folle, in una lotta interiore che, nel suo alterego napoletano, subisce le pressioni esterne dei vincoli familiari e affettivi. Così Amleto Barilotto si rifugia nell’universo del suo omonimo danese, percependo la fatalità di questa omonimia come una predestinazione. Ma il racconto ha i colori della farsa, e lo scontro tra due generi tanto differenti genera scintille di spontanea comicità: così l’immortale “to be or not to be” diventa “io nun saccio manco si song’ o non song’”, e la lingua napoletana aggiunge una nuova declinazione all’adagio shakespeariano con la sua carica naturale di ironica tragicità. Nato da un lavoro di scrittura a quattro - giovani - mani (quelle di Emanuele Valenti e Gianni Vastarella) condotto con grande umiltà, lo spettacolo è stato presentato in prima nazionale durante il festival Primavera dei Teatri e, in questo contesto in particolare, si presenta come una diversa coniugazione di un teatro contemporaneo che cerca nuove strade per interrogarsi sulle contraddizioni ed i drammi del nostro tempo.