The suit: l'essenza dell'arte è la semplicità
Che delizia, che stupore, che piacevole opera d'arte questo spettacolo! Si riscopre il piacere dell'emozione autentica, della bellezza tanto prorompente quanto assente, del mistero delle atmosfere evocate, dei suoni che vanno a scavare nel profondo della nostra identità e ci fanno sentire l'Africa.
È una storia semplice quella raccontata, descritta, evocata dai protagonisti, su una scena in perfetto equilibrio di pieni e di vuoti creato da semplici sedie colorate e stand appendiabiti che diventano di volta in volta specchi, armadi, finestre, autobus... Con la semplicità di un gioco la storia si srotola, saltando di bocca in bocca e di viso in viso, passando addirittura al pubblico e risalendo sulla scena, dove la parola è accolta dal tappeto rosso delle note della tromba, del piano, della fisarmonica e della chitarra, che amplificano o attutiscono i colpi di scena, ricreando i luoghi e le realtà, e letteralmente conquistando lo spettatore... Il protagonista è un manichino, anzi ancor meno, è un abito: the suit. È la prova dell'infedeltà della moglie di Philemon, ma soprattutto è il pretesto di una storia di simboli, lo squarcio da cui si spande la luce dalle mille sfumature di questo spettacolo... L'Africa si sente tutta, nella splendida e penetrante voce di Tilly, Nonhlanhla Kheswa, negli occhi vispi e inquieti di Philemon, William Nadylam, nella danza naturale dei corpi di Rikki Henry e Jared McNeill. Ma si sente anche il dolore, il disagio del Sudafrica dei tempi dell'apartheid ed i pregiudizi eterni del bianco che si sente superiore al nero. Il tutto però ha i toni insieme spensierati ed inquieti di un canto rituale, i colori accesi delle passioni e dei valori che animano universalmente ogni uomo, quale che sia la razza o la nazionalità.
Questo splendido racconto musicale deve la sua armonia, la sua grazia e la sua delicatezza certamente al regista, un nome dell'altezza di Peter Brook che certo non ha bisogno di presentazioni. Ma non è il regista ad avere i soli meriti: l'emozione diretta è quella che trasuda dai corpi sul palcoscenico, a partire dal protagonista William Nadylam, (intenso, raggiante, coinvolgente, una presenza che riempie il teatro, gli occhi ed il cuore) fino ai musicisti, ultimi non certo per importanza, abilissimi burattinai delle atmosfere estremamente dinamiche e piacevolmente disposti a prestarsi a gustose comparsate.
Meraviglioso scoprire come lo spettacolo, che già contava 12 anni di repliche anche in versione francese, sia stato ora riallestito con nuova linfa derivata da un'esperienza vissuta, quella di un viaggio in Cile del regista Peter Brook accompagnato da Marie-Hélène Estienne (che firma con Brook l'adattamento del testo del sudafricano Cam Themba) e dal compositore Franck Krawczyck, autore delle musiche di scena, nonché dall'attore protagonista William Nadylam.
L'atmosfera di una manifestazione studentesca è stata una pioggia di spirito latinoamericano che ha rinvigorito l'ispirazione e la creatività ridando vita a The suit: "Un théâtre ancré dans la vie".
Questo spettacolo, al di la del messaggio per cosi dire "concettuale", verbale, ha ben altro da dire: è un soffio di gioia, di speranza, è un invito ad andare all'anima delle cose, a spogliarsi del superfluo, a godere del poco. Niente è più bello e poetico della semplicità.