Trainspotting al Teatro di Sacco

 
a cura di Giulia Bianca
 
“Trainspotting” sviscera la contraddizione umana. Il Teatro di Sacco ha dato il via alla stagione teatrale “Indizi” con la presentazione di “Trainspotting” il 27 e il 28 Ottobre, regia di Sandro Mabellini e direzione artistica a cura di Roberto Biselli.
La rappresentazione teatrale dell’omonimo film del 1996 diretto da Danny Boyle, tratto dal romanzo di Irvine Welsh del 1993 ha inizio con dei corpi seduti seminudi e suoni elettronici forti e vibranti. Lo schermo di un computer cattura gli sguardi del pubblico, spinto in un loop di movimenti confusi, colori forti e ritmi incessanti. Quattro sedie, quattro attori e delle scritte che emergono dal nero delle pareti. In bianco su nero i nomi dei protagonisti si scagliano sul fondo della scena, le loro storie vengono espresse dinamicamente, nello scorrere di una narrazione così scaglionata e ricca di flashback da finir per restare gli unici punti cardine di un excursus nel mondo delle dipendenze. Gli attori entrano in ballo con mosse brevi e scattanti, dialoghi sconnessi e figure isolate nella loro compagnia.
Lo spettatore viene travolto in una danza di incoscienza, gioia, disgusto, ilarità e dolore. Possiamo scorgere notevoli richiami al romanzo che superano quelli della versione cinematografica. Michele di Giacomo nel ruolo di Mark Renton è un personaggio che racchiude in sé il concetto di rinuncia, è colui che ha rinunciato a tutti quei luoghi comuni attraverso cui la società ci insegna a vivere, l’eroina gli ha permesso di vivere offuscato e abbandonare ogni forma di aspettativa sulla sua esistenza. In scena i protagonisti reali non sono gli oggetti, i colori, o gli attori stessi, in questa forma di teatro hanno la meglio su tutto le lotte tra le proprie istanze interiori, gli spettri più profondi e ripugnanti della debolezza umana. Gli amici di Mark, Sick Boy e Spud, entrambi tossicodipendenti, intervengono con dialoghi dall’ilarità paradossale che insinuano nel pubblico risata e sconcerto. In scena gli sguardi son catturati dalle lampadine che vengono accese e spente come microfoni a ogni battuta, incorniciando dei primi piani sui personaggi, che consentono allo spettatore di avere una lente di ingrandimento puntata dritta all’interiorità.
Come ci spiega lo stesso Mabellini: ”Queste luci danno la possibilità di illuminare la persona creando un primo piano sul personaggio. C’è l’idea di isolare le figure in modo quasi cinematografico, concentrando l’attenzione dell’attore e dello spettatore sul volto e sulle espressioni. Possiamo trovare anche delle luci lontane e costanti che invece non danno affatto l’idea di un’intimità. Passando da un aspetto più violento ad uno più intimo si danno così possibilità espressive differenti.”
Il successo di questa trasposizione teatrale risiede nell’espressione psicologica più cruda e scarna degli effetti dell’eroina e delle droghe pesanti. Le scene vengono scandite da momenti in cui il palcoscenico si trasforma nella stazione e lo schermo iniziale enumera il susseguirsi delle scene e dei momenti della narrazione. I protagonisti indirizzano lo sguardo al treno che passa ma rimangono sempre lì, fermi nella loro posizione, non salgono, non scendono ma impotenti osservano e basta. Si abbassano le luci e i corpi degli attori danzano sconnessi nel buio. Le scene non vengono rappresentate ma narrate dai personaggi che si delineano in una totale non appartenenza a ogni qualsivoglia legge morale.
Sick Boy, Spud, Mark e Tommy rifanno uso di eroina e tutto precipita sempre più in fondo. Si schiaccia la separazione mentale tra chi guarda e chi interpreta e non resta che cadere giù dolcemente nei cavilli mentali dei protagonisti. All’interno del locale in cui il gruppo è solito consumare, Allison, una loro compagna tossicodipendente, interpretata dalla carismatica Valentina Cardinali, in preda agli effetti della droga non si accorge della morte della figlia Dawn. In questo momento la scena si blocca, si scopre che il padre della bambina era Sick Boy. La tristezza per la morte della piccola che si legge nella disperazione della madre è invece ridicolizzata dagli altri personaggi che le danno la colpa di non essersi accorta di nulla. Mark e Spud vengono sorpresi in un supermercato a rubare e Spud è costretto a scontare una breve condanna detentiva. Bravissimo l’attore Riccardo Festa che interpreta tre personaggi, Spud, Sick Boy e Tommy, in modo eccelso. Mark scoppia negli abissi di una crisi di astinenza, ogni cosa è fuori controllo e l’unica cosa da fare è salvarsi grazie alla Madre Superiora, il suo pusher abituale.
Il fornitore con la protezione di una madre malevola è colui che salva Mark dalla vita a cui ha rinunciato e lo ripara sotto quel mondo fatto di percezioni eclatanti e piacere assoluto, la dose questa volta è tanto alta da farlo finire in ospedale per overdose. Nella scena ogni oggetto è simbolo e gli sgabelli bianchi finiscono per fungere da toiletbowls. I quattro attori liberano tutta la loro poliedricità e i differenti livelli della narrazione non destabilizzano lo spettatore ormai immerso in un trip esilarante. Mark viene riportato a casa e la madre lo rinchiude dentro le mura di casa per fargli vincere la dipendenza. Il percorso di cura è doloroso ed estenuante e una volta terminato Mark trova lavoro ma il suo passato bussa ancora una volta alla porta per trascinarlo con sé. Sarà costretto a tornare all’illusione. Al funerale di Tommy si ritroverà ancora una volta insieme a Sick Boy, Spud e Begbie. La tenda presente nella scena, che prima rappresentava il luogo di condivisione tra i personaggi e di distacco totale dal mondo, adesso funge da bara. Dopo il funerale Sick Boy suggerisce di comprare due chili di eroina e i quattro si godono il loro pomeriggio di festeggiamenti come i vecchi tempi. Il convincente e appassionato Mario Bellocchio nel ruolo di Begbie a un tratto aggredisce un uomo in un pub e taglia anche Spud alla mano con un coltello. Mark realizza in quell’istante che la sua vita deve cambiare direzione, quella notte prende la borsa con i soldi per la droga, portandola via a Begbie, e scappa. Gli attori si seggono in cerchio e ha inizio il dialogo di chiusura dello spettacolo.
In un escalation di pensieri prendono parola tutti i personaggi, è come se le voci si addensassero in unico messaggio che urla il rifiuto di ogni “normalità” che li opprime, in nome della libertà nel perseguire incessantemente il piacere momentaneo.
Tra i temi musicali esposti, provenienti dalla riproduzione di un mangianastri anni 80, troviamo anche un simpaticissimo adattamento di “Felicità” di Albano e Romina Power.
Il regista a cui chiediamo curiosi come definirebbe questa tipologia di teatro, citando Italo Calvino, ci parla di “realismo magico”. Vi è nella rappresentazione la ricerca costante di una concretezza che sfocia nell’iperrealismo ma anche un forte piano di astrazione in cui è presente una vera e propria evocazione, non ci si focalizza mai sui fatti così per come li vediamo ma sull’interiorità del soggetto che proprio mentre vive gli effetti della droga li evoca e ci consente di percepirne la piacevole illusorietà. Tutto è dato da un’illusione, la droga non è dipendenza ma è: l’illusione. Vi sarà capitato di sognare, e converrete con me che spesso la realtà non segue la direzione dei sogni creando un solco profondissimo che ci distacca dal godimento della felicità, è proprio in questo spazio che gli effetti della droga agiscono in scena e nella vita. “Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?” Mark Renton
La nostra mente viene costantemente bombardata oggi più che mai da pensieri illusori, siamo convinti che la felicità sia quella che postiamo sui social, quella che possiamo acquistare, copiare o inventare ma la verità con cui a questo punto lo spettatore è chiamato a far i conti è quella secondo la quale tutte queste cose non sono che prodotti della mente umana. In questa rappresentazione emerge il bisogno di gridare a squarciagola che tutte quelle illusioni porteranno comunque alla stessa conclusione, la morte. Qui nasce il dramma di una vita che non è mai come ci aspettiamo e che in “Trainspotting” trova risoluzione nella dipendenza che inganna la mente facendo dell’illusione percettiva l’unica realtà possibile per sopravvivere all’incompiutezza dell’esistere.