Tutto è bene quel che finisce, o sulla necessità della morte #PdT14
La prima provocazione proviene dal titolo, che interrompe in maniera inedita una delle tante frasi fatte della nostra lingua: "Tutto è bene quel che finisce". Il progetto ideato e presentato da Paola Vannoni e Roberto Scappin (di quotidiana.com) si ritaglia uno spazio proprio all'interno di Primavera dei Teatri - presentando il primo capitolo ("L'anarchico non è fotogenico") di una trilogia "per una buona morte".Un dialogo ostinatamente flemmatico, accompagnato da movimenti ripetitivi, quasi una coreografia descrittiva che ha come sfondo la monotonia (e prevedibilità) del vivere. Ironia, domande sul nostro tempo e l'eutanasia in senso lato, come soluzione proposta, come necessità. La cifra di questo spettacolo è la stanchezza: un sussurrare di provocazioni e inquietudini celate dietro la maschera dell'ironia. Due antieroi paradossali, cowboy in camicia bianca, dialogano del presente, rompendo la quarta parete della finzione teatrale. L'urgenza delle proposte sollevate contrasta con il tono vinto, rassegnato, in cui vengono esposte: la voglia sotterranea è quella di ribaltare le convinzioni stagnanti del nostro tempo, come l'idea di virtù o quella di onestà; il che è possibile solo accettando l'idea della morte come positiva, in quanto irrimediabile e necessaria al cambiamento. Un cinismo sottile permea il rapporto tra i due, due solitudini vicine ("ti lascio sola con i tuoi pensieri"-"sono sempre sola con i miei pensieri"), e anche il loro rapportarsi sul palco ci parla di incomunicabilità, dell'impossibilita di un vero contatto tra gli uomini, relegato a gesti omologati e privi di senso. "L'anarchico non è fotogenico", non fa notizia, in una società in cui fa comodo avere delle certezze irremovibili, che siano le fiction della Rai o la scorrettezza del rubare cioccolatini in un bar. E invece tutte queste inutili certezze dovrebbero finalmente morire: fatto il loro corso dovrebbero lasciar spazio al nuovo, e noi prima di tutto dovremmo lasciarle morire, come natura vuole, senza accanirci a tenerle in vita. L'arma della risata sardonica è usata con destrezza per sollevare questioni profonde, anche in merito al ruolo del teatro stesso, anzi, dello stesso spettacolo, nei confronti della percezione e delle aspettative del pubblico. Opinioni scomode, risposte scomode, persino le forme della performance sono scomode, quasi ad incoraggiare l'eutanasia di tutte quelle comodità che stanno facendo marcire la nostra società.